Come è stato ricordato nel convegno in suo onore tenutosi lo scorso lunedì alla Camera, Stefano Rodotà aveva già ampiamente anticipato e descritto vent’anni fa -nell’efficace volume dedicato alla “Tecnopolitica”- la dialettica contraddittoria della rete. Dove il bene e il male si intrecciano, le enormi potenzialità cognitive si specchiano nella “digitalizzazione” delle menzogne. Dove discernere tra il vero, il verosimile, l’errore colposo e il falso doloso non sempre è agevole.
Rodotà evocava nel testo l’urgenza di una cittadinanza dell’era elettronica e ci ricordava che il rischio si associa all’innovazione. Ecco, la discussione improvvisamente lievitata sulle fake news va ricollocata nei suoi termini reali, per non diventare la solita fiammata transeunte ed effimera. Con l’ennesima proposta di legge annunciata (dal Partito Democratico) come se già non esistesse un complesso di norme spesso inapplicate; e con la forza comiziale di Renzi alla Leopolda dedicata proprio all’argomento del giorno: impaginato più in alto dei veri drammi italiani. E ci mancava una campagna elettorale a colpi di “la miafake lava più bianco della tua”, con i duellanti piddini e pentastellati a cui qualche buontempone deve aver consigliato di scegliere tale item per raccogliere voti. C’è da dubitarne. La fake delle fake è quella che vede complotti dovunque e ritiene vincente Trump per le mail o i tweet del Cremlino. O che ritiene un servizio di un italiano sul New York Times la prova regina.
Intendiamoci: il problema esiste ed è assai maggiore di quello che si sta discutendo. Internet ha zone dark nascoste che non appaiono, in cui viaggiano traffici non commendevoli o persino criminosi. Non solo. La guerriglia in corso quotidianamente per appropriarsi delle identità digitali di ognuno di noi da parte degliOver The Top (ai quali il progetto di legge immaginato al Senato vorrebbe dare il ruolo di giudici delle malefatte) è un capitolo dello scontro mondiale richiamato con insistenza da Papa Francesco. Il tema, insomma, riguarda chi controlla gli algoritmi dei saperi e chi è in grado di orientare le grandi tendenze dell’opinione di massa. Si farebbe bene, prima di tutto, a mettere in cima alle priorità la “pubblicizzazione” del reticolo dei software che -con i centri della finanza- costituiscono oggi il potere reale: il nuovo “Palazzo d’inverno”.
Certamente, serve anche un’iniziativa battente. L’ubiquità della rete e il superamento della dimensione spazio-tempo dell’infosfera digitale moltiplicano a dismisura l’effetto delle fake animate da siti farlocchi agganciati a taluni cinici raccoglitori di pubblicità. Se non serve un’altra legge (quando, poi, siamo a fine mandato), è necessaria una rigorosa vigilanza da parte dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni -inventata per garantire l’ordine democratico della comunicazione. L’Agcom ha già elaborato materiali interessanti e istituito tavoli di lavoro. Adesso si passi dalla teoria alla prassi.
E’ bene, infine, chiarire che da moltissimo tempo si denunciano le fake, a partire dalle vergogne dell’età analogica: piazza Fontana e le altre stragi di stato, Ustica, il caso Moro, omicidi di stampo mafioso, apparati deviati. L’elenco è infinito. Ma allora servivano giornalisti eroici, spesso lasciati soli. Eppure, l’opera puntuale di controinformazione costruì culture dei e sui media diverse. La qualità e il senso civico sono stati l’alternativa all’utilizzo della regola della bugia. Ora come allora, dunque.
il manifesto, 29 novembre 2017