Dopo il “Brexit”, morte e rinascita dell’Europa?

26 Giugno 2016

Fabrizio Tonello

Il 23 giugno 2016 rimarrà come data di morte del progetto europeo contenuto nei trattati di Maastricht, Lisbona e Nizza, un progetto neoliberale su cui i popoli europei avevano manifestato forti resistenze in varie forme e occasioni. Resta da capire se il referendum inglese possa essere anche la data di nascita di un nuovo progetto europeo, più vicino a quello del trattato di Roma e agli ideali dei padri fondatori.

Palesemente, il “Brexit” è stato una risposta alla paralisi, un tentativo dei cittadini inglesi di riprendere in mano il proprio destino. Non occorrono manuali di Scienze politiche per capire che i sistemi “postdemocratici” in cui viviamo (la definizione è di Colin Crouch) sono paralizzati e incapaci di decidere, tanto negli Stati Uniti quanto nell’Unione Europea. Sulle sponde del Mediterraneo, tutti si rendono conto che l’Unione Europea non è in grado di decidere sull’accoglienza ai profughi siriani, non è in grado di riavviare la crescita economica, di combattere i paradisi fiscali o di proteggere i più deboli tra i propri cittadini. Non è in grado, soprattutto, di garantire standard democratici minimi: le regole sul debito valgono per i più deboli, non certo per i più forti, la solidarietà europea non va al di là del programma Erasmus, mentre il chiacchiericcio sulla  nomina di un ministro delle Finanze dell’Unione sarebbe risibile se non fosse tragico (quale sarebbe la sua legittimità democratica?).

Negli Stati Uniti, mentre in Gran Bretagna si votava, giovedì la Corte Suprema ha bocciato il piano dell’amministrazione Obama per facilitare l’integrazione di milioni di immigrati, una decisione a parità di voti, 4 favorevoli e 4 contrari, perché mancava il voto del nono giudice, che Obama ha nominato ma che la maggioranza  repubblicana in Senato rifiuta di confermare. La Corte, dove prima o poi arriva qualsiasi scelta politica più importante di ridipingere le strisce pedonali, resterà a organico incompleto almeno per un altro anno, se non di più. Nel frattempo il Congresso dominato dai repubblicani può solo fare ostruzionismo e bloccare qualsiasi provvedimento: neppure la strage di Orlando è riuscita a fare approvare elementari misure di buon senso come vietare la vendita di armi a chi è mentalmente instabile o sospettato di legami con il terrorismo.

Le cose non vanno meglio a Bruxelles, diventata da tempo il braccio armato di un neoliberalismo tanto più feroce quanto incapace di offrire speranza per il futuro, una Santa Alleanza che fa rimpiangere quella di Metternich e dello Zar.

Ieri, quindi, hanno vinto le “antiche libertà inglesi” e ha perso la tecnocrazia europea. Gli slogan delle élite sulla catastrofe economica imminente in caso di uscita della Gran Bretagna non hanno convinto gli elettori. Il referendum inglese è stato una prova che i sistemi politici nazionali possono ancora funzionare nell’epoca della globalizzazione e del dominio dei mercati finanziari, quanto meno se vi trovate a Londra e non ad Atene. Si vedrà nei prossimi mesi se questo tentativo di riappropriazione della sovranità nazionale è davvero possibile.

Certo, il voto inglese lascia il Regno Unito nelle mani di personaggi poco raccomandabili come Nigel Farage e Boris Johnson ma qui si capirà se James Corbyn e i nuovi laburisti saranno all’altezza della situazione, se sapranno riaprire il dialogo con i perdenti, con i lavoratori che negli ultimi anni hanno votato massicciamente per Farage e, giovedì, per l’uscita dalla UE (basta guardare una carta sociodemografica e sovrapporla a una con i risultati del referendum per capirlo).

L’uscita della Gran Bretagna può anche essere l’ultima speranza per resuscitare il progetto europeo del manifesto di Ventotene, alla cui crisi Londra ha contribuito in maniera determinante fin dall’epoca di Margaret Thatcher. È stato il primo ministro inglese, fin dal 1979, a volere un’Europa “alla carta”, cioè una zona di libero scambio in cui però la Gran Bretagna conservava il diritto di rifiutare ogni regolamentazione che giudicasse contraria ai suoi interessi, dalle protezioni sociali al trattato di Schengen sulla libera circolazione delle persone. Non solo: la Thatcher inventò il celebre slogan “I want my money back!”, ottenendo il rimborso di gran parte di quanto il suo paese avrebbe dovuto versare come contributo al bilancio comunitario. Oggi, infatti, la Gran Bretagna paga poco più della metà di paesi con una popolazione e un prodotto lordo comparabile, come la Francia e l’Italia. E, infine, Londra ha sempre sostenuto il rapido allargamento a Est dell’Unione, con il prevedibile risultato di rendere ingestibili i meccanismi di governo dell’Europa a 28 paesi.

Questa Europa, infettata dal virus del neoliberalismo, non poteva in prospettiva che suscitare reazioni xenofobe e sogni di rivincita nazionale alimentati dall’abbandono dei lavoratori al loro destino: è assolutamente stupefacente la cecità e l’opportunismo delle élite trasnazionali di fronte al governo parafascista di Viktor Orban in Ungheria, di fronte al governo clericale e autoritario della Polonia, di fronte a un candidato di estrema destra che ha mancato per un soffio la conquista della presidenza in Austria e al fatto che il primo partito francese è oggi il Front National di Marine Le Pen.

L’Europa di oggi non ha nulla a che fare con quella sognata da Altiero Spinelli e, con ogni evidenza, è destinata alla catastrofe, certamente nella forma di una serie di richieste di deroghe alle regole comuni, in alcuni casi di vera e propria uscita, per quanto alto sia il prezzo da pagare, in particolare per i membri della zona euro. Ora che “l’impensabile” è avvenuto e la Gran Bretagna se ne va, occorre guardare lucidamente in fondo all’abisso spalancato di fronte a noi prima che sia troppo tardi. Un’Europa di governi nazionalisti e autoritari l’un contro l’altro armati, come negli anni Trenta, è perfettamente possibile: quando i popoli sono alla disperazione un maestro di Predappio o un imbianchino austriaco da acclamare come salvatori della patria si  trovano facilmente.

Chi volesse guardarsi intorno con attenzione scoprirebbe che tra il 2000 e il 2015 ben 27 paesi (ventisette!) hanno abbandonato la democrazia attraverso golpe militari come in Egitto e in Tailandia o attraverso lo svuotamento dall’interno delle istituzioni costituzionali, come in Ungheria e in Turchia.

Che le democrazie liberali siano irreversibili è una pericolosa illusione.

 

(*) L’autore è socio del Circolo LeG di Bologna

 

Il Bo. Il giornale dell’Università degli Studi di Padova, 24 giugno 2016

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