Con molti anni di ritardo sulla gran parte dei Paesi dell’Unione europea, l’Italia sembrerebbe finalmente avviata ad introdurre nel proprio sistema di protezione sociale una garanzia di reddito minimo per chi si trova in povertà assoluta, ovvero per chi non riesce a soddisfare i propri bisogni essenziali: quattro milioni circa di persone (di cui un milione sono minori), secondo le stime Istat, distribuite in 1.470.000 famiglie. Il condizionale è d’obbligo, perché gli stanziamenti previsti per questa misura per l’anno in corso, ma anche a regime, sono molto ridotti e, per un aspetto fondamentale (le misure di attivazione), precari.
Da ciò discendono due conseguenze. La prima è che non tutti gli individui (neppure tutti i minori) e le famiglie in povertà assoluta riceveranno sostegno. I 600 milioni di euro stanziati per quest’anno, che salgono ad 800 se si tiene conto anche della messa a regime dell’Asdi destinata ai disoccupati poveri che perdono diritto alla indennità di disoccupazione (Naspi), basteranno, secondo i calcoli dello stesso ministero, a coprire solo 280.000 famiglie — poco più di un quinto delle famiglie stimate in povertà assoluta. La copertura dei minori sarà molto più alta, il 50% circa, perché si è deciso di concentrare il sostegno sulle famiglie con minori. Ma anche così, mentre si lasciano fuori ingiustamente molti adulti privi di mezzi, senza essere in grado di offrire loro un lavoro decente in tempi brevi, si esclude dal sostegno la metà dei minori poveri, con conseguenze prevedibili sulle loro opportunità nel medio e lungo periodo.
La percentuale di poveri assoluti che potranno ricevere sostegno si alzerà un po’ negli anni successivi, dato che si prevede di portare lo stanziamento a un miliardo e mezzo a partire dal 2017, ma rimarrà sempre minoritaria: attorno al 30% secondo alcune stime. Anche se, come speriamo, la ripresa continuasse e facesse uscire dalla povertà assoluta una quota di individui e famiglie, difficile pensare che ciò riguardi più della metà di chi oggi è povero.
La seconda conseguenza del modo in cui è stata pensata questa misura e i suoi finanziamenti è che mancheranno le risorse anche per quella parte cui pure il ministro del Lavoro Giuliano Poletti a parole tiene molto, al punto da far credere che si tratti di una novità tutta italiana: le misure di attivazione (“inventate” e messe in pratica da diversi decenni in quasi tutti i Paesi che hanno un reddito di garanzia per chi si trova in povertà). Nel piano del governo, infatti, queste dovrebbero essere organizzate, come è giusto, dai servizi territoriali e finanziate dalle risorse del fondo sociale europeo. Come è noto, il fondo sociale, oltre ad avere criteri di utilizzo stringenti, è destinato progressivamente a ridursi e scomparire. Gli enti locali che oggi provvedono con proprie risorse a garantire un qualche sostegno ai poveri con l’introduzione di una misura nazionale potrebbero, è vero, destinare quelle risorse alle misure di attivazione. Ma ciò non vale per tutti. Ed anche quelli che già provvedono potrebbero trovarsi a dover integrare la troppo ridotta misura statale per garantire un sostegno economico a tutti i poveri assoluti e non solo ad alcuni, senza avere più risorse per le misure di attivazione e di formazione adeguata del personale che deve definirle e monitorarne l’attuazione.
Questi sono i limiti più gravi del piano di contrasto alla povertà messo a punto dal governo. Essi inducono a temere che non siamo di fronte ad un lento avvicinamento ad una garanzia di reddito e di inclusione sociale per tutti i poveri assoluti, ma solo ad un sostegno al reddito per una piccola porzione di questi, con scarse garanzie anche per la messa a punto delle necessarie politiche di attivazione.
Ce n’è tuttavia almeno un altro. Si pensa ad una erogazione in somma fissa. Con la fascinazione per la cifra degli 80 euro di cui sembra vittima questo governo, si pensa infatti di dare ai pochi “fortunati” che avranno un Isee sotto i 3mila euro annui, almeno un figlio minore e qualche altra caratteristica ancora da definire, per poter restringere la platea dei potenziali beneficiari, 80 euro mensili a testa (fino ad un massimo di 400 per famiglia), senza scale di equivalenza e senza riguardo per l’ampiezza dello scarto tra l’Isee effettivo di una famiglia e la soglia dei 3mila euro.
Decisione incomprensibile, che produrrà ulteriori disuguaglianze tra poveri: non solo tra chi ha accesso al beneficio e chi no, ma tra chi è più o meno distante dalla soglia. Su questo sfondo molto problematico, si inserisce la delega al governo per il necessario riordino delle misure assistenziali. Un riordino opportuno e necessario, che tuttavia richiederebbe chiarezza su che cosa è assistenza e che cosa vi rientra, una chiarezza che in Italia è lungi dall’essere scontata.
la Repubblica, 4 febbraio 2016