Noi, conservatori per salvare la Carta

21 Gennaio 2016

“Lei è un conservatore” è diventato nella polemica politica italiana il più infamante degli insulti. A tal segno che chi è colpito dalla terribile accusa si affretta a scusarsi giurando che le sue sono idee progressiste della più bell’acqua e che anzi il suo è vero e genuino spirito riformatore. Pochissimi, per quel che ne so, osano proclamare “sì sono un conservatore e me ne vanto”.

Eppure, accanto all’ideologia conservatrice che difende privilegi sociali e politici, c’è stata nella storia anche una cultura conservatrice (da non confondere con quella reazionaria) che si è preoccupata dei disastri che i folli producono quando hanno in mano il governo. Di questa cultura ha dato un saggio magistrale Thomas Hobbes quando ha raccontato l’apologo delle figlie di Peleo vecchio re di Tessaglia. Le giovinette volevano ringiovanire il vecchio re e, ispirate dalla maga Medea, fecero a pezzi il vegliardo e lo misero in un bel calderone a bollire, fiduciose che sarebbe saltato fuori più vigoroso di prima. Fuor di metafora: i riformatori ignoranti pretendono di conoscere come si rende lo stato più efficiente e solido, ma con la loro azione dissennata lo smembrano e devastano.

Il conservatore ha una concezione pessimista della natura umana. Sa che in generale gli esseri umani sono molto più inclini a sopraffare, offendere, infliggere umiliazioni e sofferenze piuttosto che cooperare, vivere in pace e rispettarsi. Per questo vuole uno stato bene ordinato che imponga il governo della legge a tutti e seri limiti al potere di chi governa. Considera lo stato debole l’anticamera dell’anarchia, intesa quale dominio dei molti prepotenti; reputa lo stato autoritario uno strumento dell’arbitrio di uno o di pochi.

Di fronte al dilemma se sia peggiore lo stato debole o lo stato autoritario non ha dubbi a rispondere che il primo è male peggiore del secondo, ma aggiunge che anche lo stato autoritario va combattuto in nome dello stato di diritto.

Ha della vita un’idea austera. Detesta chi attribuisce sempre le proprie sconfitte alla società o alla mala sorte, chi non si assume responsabilità, chi non ha principi fermi, chi si rassegna senza lottare, chi ha animo da servo. Non sopporta la volgarità, l’ostentazione della ricchezza e del potere, e non tiene in alcun conto l’opinione della ‘gente’. Piuttosto che stare al passo coi tempi, quando i tempi sono dominati dagli ignoranti, preferisce andare contro corrente. Disprezza il nazionalismo come espressione di pregiudizi e passioni primordiali e brutali, ma non aderisce neppure al cosmopolitismo, pur rispettandone l’alta esigenza morale che lo ispira. In generale, soprattutto in Italia, ha animo di patriota perché considera la patria un ideale di libertà che incoraggia la cura del bene comune.

Fra gli scrittori politici predilige i maestri del realismo politico che invitano a considerare sempre, prima di intraprendere una riforma politica o sociale, le probabili conseguenze. L’assicurazione che tale o talaltra riforma nasce dall’esigenza di rendere lo Stato più libero, giusto, efficiente o semplice, lo lascia del tutto indifferente. Vuole sapere, per quanto possibile, quali effetti produrrà. Giudicherebbe un’idea da folli, per esempio, una riforma costituzionale che, sbandierata come rimedio alla lentezza del processo legislativo e correttivo al troppo alto numero dei parlamentari, produrrà in effetti una repubblica zoppa con una camera inutile infarcita di mediocri politici. Mentre il riformatore dissennato guarda esclusivamente al futuro radioso che confida di poter costruire, il conservatore, saggiamente, guarda al passato per imparare dagli errori commessi anche da chi aveva le migliori intenzioni e per capire quali istituzioni si sono dimostrate atte a sostenere le libertà civili e politiche.

Criterio principe della condotta politica del conservatore è la moderazione dettata dalla persuasione che le vittorie complete di una parte politica sull’altra, anche se si tratta della maggioranza, sono sempre nefaste. Luigi Einaudi, nel magistrale saggio Major pars et sanior pars (1945) ha chiarito bene il significato dello spirito di moderazione parlando di “atmosfera del compromesso” da intendersi come ricerca dell’accordo che non nasce dal puro calcolo egoistico, ma dalla discussione critica fra maggioranza e minoranza attraverso la quale le parti in lotta riconoscono i propri limiti. Soltanto in questo modo la legge “diventa frutto comune della maggioranza e della minoranza […]. Soltanto allora il popolo dice: questa è la legge. E a essa ubbidisce”.

Sentenza saggia nel caso delle leggi ordinarie, ancora più valida quando si tratta della Costituzione. Se mai c’è stato un tempo e un luogo in cui si sente la necessità di veri conservatori, è l’Italia dei nostri giorni.

 Il Fatto Quotidiano, 19 gennaio 2016

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