Fin dall’inizio è con le parole che l’Europa ha tradito. Quel che chiamò crisi del debito greco doveva chiamarlo, in osservanza del principio di realtà: crisi dell’intero progetto d’unificazione europea. L’imprecisione linguistica non è mai casuale. Serve a nascondere, è una strategia di evitamento. Circoscrivere la crisi al debito greco neutralizza le responsabilità dell’Unione, la spoliticizza. Ingrandisce i poteri di una governance sempre più incontrollata e sopprime quelli dei cittadini, che non sanno più a quale governo rivolgersi né dove sia la sovranità (governance non è governo: è potere senza imputabilità).
Il progetto europeo nacque col proposito di curare i tre mali che avevano distrutto il continente: l’ingiustizia sociale, l’ostilità fra Stati, l’autoritarismo. Oggi quei fini non sono raggiunti.
Quanto accaduto dopo la vicenda greca conferma sia la crisi del progetto, sia la cecità delle élite che ne hanno la guida. La mancata solidarietà sulla gestione dei rifugiati, le frontiere rialzate caoticamente, la sistematica violazione delle Costituzioni nazionali e della Carta europea dei diritti fondamentali. Siamo di nuovo e più che mai in una tempesta perfetta, e l’Unione resta impigliata nella presunzione fatale che le ricette adottate siano l’unica e ideale soluzione, che le istituzioni comunitarie non necessitino cambiamenti radicali (o che vadano cambiate surrettiziamente, dando vita appunto a un grande potere tutelare senza imputabilità). Che l’unica sfida sia quella di salvare il funzionamento dei mercati e la competitività, anche se ormai molti economisti negano la natura indispensabile della competitività e la coincidenza tra le regole di un’azienda e quelle di uno Stato.
La presunzione fatale – espressione di Friedrich Hayek per definire il progetto sovietico e socialista – caratterizza i difensori di dogmi e svolte autoritarie, e non a caso aumentano nell’Unione i politici e governanti attratti da modelli più efficaci e rapidi, come quello del Pc cinese. L’allargamento a Est ha rafforzato il fascino esercitato dall’autoritarismo: non a caso una parte di Solidarnosc tesseva le lodi delle strategie economiche di Pinochet.
Alla rovina democratica dell’Unione si può reagire in due modi. Alla maniera di Cicerone, come lo racconta Shakespeare nel Giulio Cesare (“Buona notte Casca, questo cielo turbato sconsiglia di andare in giro”). Ma sarebbe rispondere alla strategia dell’evitamento con un comportamento analogo. Oppure si può entrare nella tempesta, denunciare a chiare lettere chi prima ha voluto il predominio disordinato dei mercati poi ne ha profittato per diluire il patrimonio democratico delle nazioni, e cercare di influenzare gli eventi chiedendo che l’Unione si dia una Costituzione democratica, vincolante per i cittadini, gli Stati, e anche le istituzioni. Una Costituzione che rispetti le Costituzioni delle nazioni, spesso più avanzate del Trattato di Lisbona e anche della Carta europea dei diritti. È l’alternativa che teorizzò Albert Hirschman: o l’exit o il voice, la presa di parola critica all’interno della costruzione europea.
Sono le oligarchie europee e i singoli governi ad aver perso il rapporto sia con le realtà vissute dai cittadini sia con il progetto europeo. Sono le oligarchie a ignorare che non si può cocciutamente violare i diritti delle persone e le Carte approvate dall’Unione, che non si può sprezzare sistematicamente i verdetti elettorali senza prima o poi pagare tutto intero un prezzo molto alto e distruttivo.
I custodi dell’austerità neoliberale e della sorveglianza di massa non sono più al servizio della democrazia costituzionale. Fin dagli anni ‘70 sono tentati da Costituzioni accentratrici di poteri, e l’establishment di Bruxelles è già nella logica dei regimi autoritari. Basti ricordare la risposta di Cecilia Malmström, Commissario al Commercio a una domanda sul Ttip: a cosa sono servite le petizioni contro il Trattato transatlantico in vari Paesi europei (circa 4 milioni di firme)? La replica della Malmström: “Non ricevo il mio mandato dal popolo europeo”.
Se la Commissione non ha ricevuto un mandato dal popolo, da chi lo riceve? Chi controlla il sempre più potente controllore? Da chi ricevono il mandato la Banca centrale europea, la troika e l’Eurogruppo, struttura completamente fuori dal controllo parlamentare e che non tiene verbali delle proprie riunioni? L’ottimismo panglossiano ha sempre fatto dire ai responsabili Ue: “L’Unione politica che farà funzionare l’euro e legittimerà i vari organi tecnici dell’attuale governance verrà, perché necessaria”. Non è venuta e non viene. Il presidente della Bundesbank già dice che non serve più.
Il negoziato con Atene ha offerto un’occasione decisiva per sperimentare e consolidare una sorta di diritto emergenziale permanente, uno stato di eccezione che sfigura senza più pudore il progetto europeo, e non i valori astratti ma i diritti iscritti nella Carta e gli obiettivi fissati negli articoli 2 e 3 del Trattato (pluralismo, tolleranza, giustizia, solidarietà, e piena occupazione, progresso sociale, sviluppo sostenibile).
Il diritto emergenziale si applica in tempi di guerra, e dopo gli ultimi attentati i leader europei non esitano a proclamare proprio lo stato di guerra. Il caos alle frontiere è stato spesso acceso dalle nostre politiche estere. L’Europa ha subappaltato agli Usa la gestione della pace e della guerra, ma gli Usa hanno mostrato di essere non una potenza creatrice di ordine internazionale, ma un impotente artefice di caos globale. In questo senso, l’Europa deve darsi subito una politica razionale e seria verso la Russia: tra le tante sue mancanze, questa è oggi la più vistosa.
Se non si mobilitano al contempo l’exit e il voice, non ci sarà modo di opporsi alla strategia dell’evitamento che permette all’Europa di ignorare ciò che ha suscitato al suo interno prima l’ansia, poi la chiusura mentale, infine la propensione ad autodistruggersi.
Il Fatto Quotidiano, 13 gennaio 2016