Il reato di clandestinità: che cos’è e in cosa consiste

13 Gennaio 2016

Torino, gennaio. Si discute molto, in questi giorni, dell’opportunità di abrogare il reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato di cittadini extracomunitari, ma le ragioni dei favorevoli e dei contrari sono spesso obnubilate da una diffusa disinformazione circa la reale natura di questo illecito, dei motivi per cui fu introdotto, e delle ragioni per cui il Parlamento deliberò di depenalizzarlo.

Queste poche righe vogliono fornire un contributo in termini di chiarezza e comprensione, nella consapevolezza che solo se si conoscono le questioni ci si può formare un convincimento motivato e non falsato da ideologie e opportunismi.

 La natura del reato di clandestinità

La legge n. 94 del 2009 introdusse, nel Testo Unico delle norme sugli stranieri extracomunitari, l’art. 10 bis che sanziona la condotta dello straniero che fa ingresso o si trattiene nel territorio dello Stato in violazione delle disposizioni che disciplinano, appunto, l’ingresso ed il soggiorno in Italia dei cittadini di Paesi non appartenenti all’Unione europea (con esclusione, quindi, dei cittadini comunitari, nei cui confronti questo reato non si applica).

La sanzione è l’ammenda da 5.000 a 10.000 €: trattasi di un reato contravvenzionale, punito con la sola pena pecuniaria, per il quale non è possibile l’adozione di forme limitative della libertà personale, quali l’arresto o il fermo di polizia, perché il nostro sistema processuale penale non consente di mettere in carcere una persona per un reato che non è punito con la pena detentiva. Questa considerazione è molto importante, al fine di capire i meccanismi attuativi di questo reato: lo straniero che entra o soggiorna illegalmente in Italia non può essere arrestato, quindi viene denunciato a “piede libero”, e, nelle more del processo, è libero di andare dove vuole: quando dovesse essere condannato a pagare l’ammenda chi lo recupererà mai?

Una prima considerazione saltò subito agli occhi di tutti: che senso ha punire con una pena pecuniaria uno straniero irregolare che – proprio perché privo di permesso di soggiorno – non può accendere un conto corrente, non può essere assunto regolarmente, non può intestarsi beni immobili o mobili registrati?

Cioè, in che modo lo Stato ha la garanzia di recuperare le pene pecuniarie irrogate? Assolutamente nessuna, perché lo straniero irregolare condannato per questo reato non può possedere beni aggredibili alla luce del sole.

Fu subito evidente che mai la Pubblica Amministrazione avrebbe intascato nemmeno un centesimo delle pene pecuniarie irrogate, anzi, ci avrebbe rimesso perché non avrebbe nemmeno recuperato le spese di giustizia che lo Stato anticipa per la celebrazione di un processo e che, dopo, cerca di recuperare dal condannato.

Senza contare l’incidenza della rilevanza numerica di questa fattispecie negli uffici giudiziari, già oberati di cause pendenti.

L’impossidenza economica del condannato e, comunque, l’impossibilità oggettiva di avere un patrimonio aggregabile dallo Stato creditore, evidenziarono l’assoluta inutilità di questo illecito.

Ma anche sotto il profilo della deterrenza, l’efficacia è pari a zero.

E’ ovvio che chi mette a repentaglio la sua vita, sulle carrette del mare o nel sottofondo di un TIR, non si lascia spaventare dall’ipotesi di potere in futuro essere condannato al pagamento di una somma di denaro che sa benissimo non sarà in concreto esigibile.

D’altronde, nei sei anni di applicazione di questa norma gli ingressi illegali in Italia non sono affatto diminuiti, anzi.Allora, perché è stata introdotta questa fattispecie e perché si fatica tanto a levarla di torno?

 Gli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea

Occorre fare un passo indietro.

Correva l’anno 2009, quando R. Maroni (Ministro dell’interno) ed A. Alfano (al Dicastero della giustizia) idearono questo illecito. Nel 2008 il Parlamento europeo ed il Consiglio adottarono una direttiva avente ad oggetto “Norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di Paesi terzi il cui soggiorno è irregolare”, meglio nota come “Direttiva rimpatri”, il cui termine di recepimento negli ordinamenti interni degli Stati membri sarebbe scaduto il 24.12.2010. Corre l’obbligo di precisare che detta direttiva – vincolante dopo la scadenza del termine di recepimento – prevedeva che le espulsioni degli stranieri fossero attuate ordinariamente in modo non coattivo, concedendo a chi doveva essere espulso un termine per la partenza volontaria, decorso invano il quale si poteva procedere all’allontanamento coatto. Per contro, il sistema espulsivo italiano, disegnato nel 2002 dalla Bossi-Fini, prevedeva ( e lo prevede sostanzialmente ancora oggi) che tutte le espulsioni fossero eseguite immediatamente dalla Polizia con l’accompagnamento coattivo alla frontiera dello straniero da espellere, insomma l’esatto contrario delle norme europee.

Il Governo italiano dell’epoca – con a capo lo stesso Presidente del 2002 – non era particolarmente entusiasta all’idea di doversi adeguare alla normativa sovranazionale da lì a poco (24.12.2010), ritenendo che fosse preferibile salvaguardare i confini nazionali con il collaudato sistema delle espulsioni coatte. Fu così che l’allora Ministro Maroni ebbe la (in)felice intuizione da cui si deve la genesi del reato di cui ora tanto si discetta. Poiché la direttiva europea consentiva agli Stati membri di derogare all’obbligo di concedere un termine per la partenza volontaria, tra l’altro, anche nei casi in cui l’espulsione fosse stata disposta come sanzione penale o in conseguenza della stessa, il Governo decise di “inventare” il reato di ingresso e soggiorno illegale, sanzionandolo con una sanzione pecuniaria, ma prevedendo che il giudice (nella specie quello di pace) potesse sostituire l’ammenda con l’espulsione, a titolo di sanzione sostitutiva della stessa pena pecuniaria. In tal modo l’espulsione sarebbe stata conseguente ad una sanzione penale e, conseguentemente, si sarebbe potuta aggirare la direttiva rimpatri non applicandola, nel pieno rispetto formale della direttiva stessa. Insomma, una tipica soluzione “all’italiana”.

Questa fu il vero motivo per cui nel 2009 venne introdotto nel nostro ordinamento questo reato: cercare di eludere gli obblighi derivanti all’Italia dall’appartenenza all’Unione europea, e non certo pensare di rimpinguare le casse dello Stato con ammende stratosferiche che mai sarebbero state concretamente esatte, e, men che meno confidando nel loro effetto deterrente.

 Le bugie hanno le gambe corte

Questa sorta di truffa delle etichette però non ha funzionato. E’ necessario aggiungere un elemento di conoscenza per ben comprendere l’evoluzione delle cose. Non tutti sanno che, parallelamente alla denuncia per il reato di clandestinità, lo straniero che viene sorpreso in condizione irregolare sul territorio italiano, di norma deve essere obbligatoriamente espulso in via amministrativa dal prefetto. Dal momento dell’accertamento dell’irregolarità partono due procedimenti paralleli, entrambi volti all’allontanamento dall’Italia: quello penale e quello amministrativo, è una sorta di gara dove vince chi arriva primo.

Infatti, se nelle more dello svolgimento del processo penale l’Amministrazione esegue l’espulsione coattivamente, il giudice del procedimento penale emette una sentenza con cui dichiara che l’azione penale è diventata improcedibile, perché lo Stato non ha più alcun interesse a condannare al pagamento di un’ammenda – a sua volta convertibile in espulsione – uno straniero che già è stato allontanato dall’Italia.

Se, viceversa, all’atto della celebrazione del processo per il reato di clandestinità non si ha notizia dell’avvenuta espulsione dell’imputato, si prosegue e – in caso di condanna – il giudice irroga la pena pecuniaria, che può essere sostituita dall’espulsione disposta dello stesso giudice. Così lo straniero, che nel frattempo è uccel di bosco (perchè, come precedentemente chiarito, non può essere messo in carcere per un reato punito con la sola pena pecuniaria) fa collezione di espulsioni: quella amministrativa del prefetto e quella del giudice di pace.

Il normale buonsenso consente di domandarsi che senso abbia disporre una pluralità di espulsioni – con l’ulteriore aggravio dei costi di un processo penale – essendo sufficiente cercare di eseguirne una.

Ma neppure l’eventuale espulsione del giudice a titolo di sostituzione dell’ammenda può esser facilmente disposta ed eseguita: la legge, infatti, prevede che il giudice possa effettuare la sostituzione solo se non esistono ostacoli alla sua immediata esecuzione, cioè se lo straniero è identificato, se ha il passaporto, e se c’è un vettore disponibile a riportarlo da dove è venuto. Peccato però che la sussistenza di queste stesse circostanze avrebbe già determinato l’esecuzione dell’espulsione in via amministrativa, con conseguente sentenza d’improcedibilità in sede penale. Se, invece, si celebra il processo penale, ciò vuol dire che l’espulsione amministrativa non è stata eseguita, proprio per la sussistenza di quegli stessi impedimenti che ostano all’adozione dell’espulsione a titolo di sanzione sostitutiva.

La conseguenza è sotto gli occhi di tutti: quella introdotta nel 2009 è una fattispecie del tutto inutile.

 La legge delega del 2014

Con la legge 28.4.2014 n. 67, il Parlamento ha conferito delega al Governo per la depenalizzazione di una serie di reati, tra cui quello in esame, entro 18 mesi dall’entrata in vigore della legge stessa. A termine abbondantemente decorso, il Governo discute oggi se esercitare la delega parlamentare.

L’insieme della comunità scientifica è concorde per l’abrogazione di un reato inutile.

A ciò si aggiunga che anche la Procura nazionale antimafia si è schierata a sostegno dell’abrogazione, evidenziando come il reato in questione ostacoli le indagini volte all’accertamento delle responsabilità dei trafficanti di esseri umani che gestiscono gli sbarchi sulle nostre coste. Infatti, se gli immigrati debbono essere indagati per ingresso illegale, non possono essere sentiti come persone informate sui fatti, ma debbono essere interrogati con la necessaria assistenza di un difensore e possono avvalersi della facoltà di non rispondere.

Peraltro, si registra ormai da tempo una sorta di disapplicazione di questo reato, soprattutto nei grandi uffici giudiziari  dove il carico di lavoro è tale per cui i processi per il reato di clandestinità non si celebrano, preferendo i capi degli uffici privilegiare le scarse risorse per perseguire altre fattispecie ben più gravi, cui attribuire la precedenza.

 Le ragioni del no

Stando così le cose, perché il Governo nicchia, rinvia, e pare refrattario ad esercitare la delega del Parlamento? Si dice perché la gente non capirebbe, perché verrebbe meno un presidio importante contro l’invasione degli stranieri – anche in considerazione dell’allarme terrorismo – sicché i tempi non paiono maturi.

Dunque meglio rinviare la decisone aspettando che le acque si chetino, senza fornire all’opposizione una ghiotta occasione di propaganda e di facile raccolta del consenso popolare. Pertanto, anche se la maggioranza governativa concorda sull’abrogazione, considerazioni di opportunità politica ne sconsigliano l’adozione.

 Brevi note conclusive

I nodi vengono al pettine. E’ ovvio che il Ministro dell’interno, che nel 2009 era Ministro della giustizia, non possa oggi sconfessare a cuor leggero quel che sei anni or sono propugnava e approvava con convinzione. L’onestà intellettuale fa spesso a pugni con le contingenze politiche del momento.

Ma chi ha fatto credere all’opinione pubblica che quel reato costituisse un utile strumento di contrasto all’immigrazione irregolare, pur sapendo benissimo che altro era lo scopo? Chi ha scelto di accalappiare il consenso popolare alimentando le paure dell’invasione e suggerendo rimedi del tutto inutili e controproducenti? Chi ha propagato per anni con forza l’idea che fenomeni sociali epocali potessero essere governati seriamente con gli strumenti della repressione penale?

Nessuno risponde politicamente, prigionieri come siamo di fragili equilibri, per cui mentre il mondo cade a pezzi e i singoli Stati dell’Unione si chiudono a riccio, qui da noi ci si arrovella se sia politicamente opportuno mantenere in vigore un reato inutile.

 

(*) Guido Savio è avvocato e fa parte dell’Associazione Studi Giuridici sull’immigrazione (Asgi).

 

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