Ognuno può ovviamente giudicare come crede la durissima presa di posizione di Roberto Saviano sul conflitto di interessi di Maria Elena Boschi.
Personalmente sono totalmente d’accordo con lui. Che quel conflitto ci sia, lo ha certificato la stessa Boschi uscendo dal Consiglio dei ministri che ha votato il salvataggio di Banca Etruria. Una misura necessaria: ma evidentemente non sufficiente. Anzi, una toppa ipocrita ad uno sbrego ora ancora più evidente. Ed è innegabile che, per molto meno, avremmo chiesto le dimissioni di un ministro di Berlusconi: anche su questo Saviano ha ragione.
Ora, l’unica cosa che proprio non si può dire è che Saviano non possa parlare del conflitto di interessi perché è uno scrittore. Eppure c’è chi è riuscito a farlo, dichiarando: «mi sembra assolutamente fuori luogo associare l’autorevolezza acquisita in altri campi per emettere sentenze senza fondamento». E non lo ha detto uno qualunque, lo ha detto Dario Franceschini.
Ora, la domanda è: ma che idea del ruolo degli intellettuali ha il nostro ministro della cultura? Anzi, che idea ha della cultura?
Certo, se la cifra del suo governo del patrimonio sta nella simbolica ricostruzione dell’arena del Colosseo – cioè nella trasformazione di un monumento in una location, e dunque nella decisiva e finale virata dalla conoscenza all’intrattenimento – si può capire che a Franceschini sembri strano che uno scrittore parli di politica. E che per di più parli contro il governo: il suo governo.
Nel 1942 un altro intellettuale, Carlo Ludovico Ragghianti, riteneva urgente «l’esercizio in persona prima e la proposta instancabile di una personalità d’intellettuale, il quale anziché cedere alla continua insidia e alla tradizione delle tante trahisons, assumesse e mantenesse ad ogni costo e in ogni caso la responsabilità dell’intervento mondano dello spirito critico». Ragghianti si era permesso – diciamolo parafrasando Franceschini – di associare la sua autorevolezza di storico dell’arte a tutt’altri campi: si pensi che osò essere presidente del CLN toscano, e capo del governo provvisorio che liberò Firenze. Inaudito.
Nello stesso testo, cercando un animale a cui paragonare l’intellettuale, Ragghianti sceglie – ma guarda tu – un gufo: «Non posso ricordare senza commozione come Delio Cantimori percepisse con chiarezza di storico delle eresie questo atteggiamento, donandomi nel 1934, al ritorno da un viaggio nella Germania già nazificata la riproduzione del gufo disegnato dal Dürer, con questo commento: Mon seul crime est d’y voir clair la nuit».
Si chiede oggi Saviano: «Del resto come si comunica contro gli hashtag del premier senza passare per gufi o nemici del travolgente cambiamento? Ormai si è giunti ad un passo dall’accusa di disfattismo. Imporre la furba dicotomia che criticare il governo o mostrare le sue forti mancanze sia un modo per fermare le riforme, che invece vogliamo, e per armare il populismo, verso cui nutriamo sempiterna diffidenza, è un modo per anestetizzare tutto, per portare all’autocensura». Ecco, il solo crimine di Saviano è di vedere chiaro nella notte. Come capita ai gufi.
E – con buona pace del ministro della cultura –, guardando nella notte Saviano fa solo cultura. Quella vera.
Tomaso Montanari è Professore ordinario di Storia dell’arte moderna all’Università degli studi di Napoli ‘Federico II’