Poiché le parole e le espressioni consuete contengono spesso significati profondi, possiamo iniziare riflettendo su che cosa vuol dire: “ho bisogno di silenzio”, o “di un poco di silenzio”. Proprio a noi che amiamo la musica non accade spesso di dire proprio così? Se il silenzio è qualcosa di cui si può avvertire il bisogno, ciò significa che il silenzio non è il nulla, una pura e semplice assenza, ma è qualcosa. Non si può avere bisogno di qualcosa che non c’è. Il silenzio è un’assenza, l’assenza di suoni. Ma non è il nulla. Può essere molte cose. Innanzitutto, i silenzi dell’oppressione e del terrore. Diciamo “silenzio mortale” pensando al silenzio dei cimiteri, al silenzio che cala sul campo di battaglia o sulla fossa comune dopo che i carnefici l’hanno riempita di cadaveri. Nei campi di sterminio nazisti il popolo dell’ascolto ha sperimentato l’angoscia del silenzio di Dio. Šema‘ Isra’el è il suo imperativo: «Fa silenzio e ascolta, Israele» (Dt 27, 9), ma Dio taceva. Montesquieu ha parlato del grande silenzio che cala sulle città assediate nell’imminenza dell’attacco finale. I sopravvissuti della Grande guerra raccontarono, dopo il rumore i canti i lamenti le imprecazioni i cingoli delle macchine da guerra, il silenzio del terrore e della solitudine che precedeva l’ordine d’attacco alle trincee nemiche.
Ma c’è il silenzio che, all’opposto, esalta lo spirito: il silenzio dei grandi mistici, il silenzio della clausura, il silenzio che è terreno fecondo per l’espansione dello spirito. È il silenzio nel quale soltanto si riesce – se ci si riesce a udire la voce divina, qualunque cosa s’intenda per “divino”. Diciamo: stare “in religioso silenzio” e ricordiamo il meraviglioso passo biblico (I Re 19, 11) dove si narra di una teofania: «Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento ci fu un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto ci fu un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco ci fu un sussurro di silenzio leggero. Come l’udì, Elia uscì dalla caverna» e si coprì il capo col mantello, in segno di rispetto. Ecco: si esce dal buio della caverna seguendo non il frastuono, ma la voce che risuona nell’interiorità.
Questo silenzio si apre a un sentimento panico. Penso ai leopardiani «interminati spazi e sovrumani silenzi», dove il tempo si ferma, le morte stagioni si confondono nella presente e viva, il pensier s’annega e dolce è il naufragar. È il silenzio dell’Essere o è il suono dell’Essere che tutto avvolge, e innalza i suoi dettagli particolari in segni e simboli universali. Mario Brunello, che non per caso ama suonare nei grandi silenzi della natura, ha parlato in questi termini del silenzio in cui si percepisce il suono del battito del cuore che fa eco nell’interiorità al battito cosmico: Lied der Erde.
Il silenzio di cui stiamo parlando non è dunque solo uno stato fisico-acustico: è anche, e soprattutto, uno stato d’animo. Fissiamo dunque questo principio: la musica è in rapporto col silenzio e con lo spazio spirituale che da esso nasce e che chiede d’essere colmato. Senza silenzio, non c’è musica. Tutti conoscono la celeberrima composizione-provocazione di John Cage 4’ 33’’, un tempo diviso in tre movimenti, durante il quale nulla succede e i presenti sono invitati ad ascoltare il suono del silenzio: non solo o tanto i suoni che comunque non possono essere eliminati neppure in una camera anecoica, come il suono del sospiro o del battito del cuore, ma il suono del silenzio interiore che chiede d’essere retribuito, confortato.
La prima nota, o la prima frase, hanno un significato particolare. Sono le più delicate e decisi- ve perché sono quelle che c’interpellano dal nostro silenzio. Per esempio: le due semplici note all’ottava, prima la e poi do diesis, nella prima battuta dell’Adagio sostenuto della Sonata op. 106 ( Hammerklavier) di Beethoven hanno la funzione essenziale di determinare lo spazio spirituale di quell’infinita pagina e d’introdurvi l’ascoltatore. Pare che Beethoven abbia aggiunto quella battuta in un secondo momento, come se prima mancasse un ponte per introdurci al seguito. Sono quasi una proposta: se ci state, benissimo; altrimenti non fa per voi. E, infatti, quanti sono quelli che si annoiano, che non entrano in sintonia con quella musica che sembra divagare per venticinque minuti? Non è affatto scontato che ci si faccia prendere. Dipende dal carattere del nostro silenzio con il quale accogliamo quelle semplici note. E può accadere persino allo stesso ascoltatore, che una volta venga rapito e, un’altra volta, respinto. Può essere lo stesso compositore a voler lasciarci nell’incertezza. Ad esempio, il primo movimento della Sinfonia n. 9 di Beethoven si apre con una serie sottovoce e insistente di quinte (re-la) che non si può sapere se anticipano il re minore o il re maggiore (il che, evidentemente, implica una diversa atmosfera spirituale). Chiaro è l’intento di lasciare in sospeso: sarebbe bastato introdurre un fa naturale o un fa diesis per sciogliere l’incertezza, come sarà solo alla diciassettesima battuta. Altro esempio: la celebre sonata per violoncello e pianoforte di Schubert detta
L’arpeggione inizia con una semplice (aggiungo: bellissima) frase in la minore, affidata al solo pianoforte, su cui tutto il primo tempo è costruito. C’è un modo superficiale di eseguirla, frivolo, Biedermeier. Se s’incomincia così, lo spirito dell’intera sonata sarà segnato dalla superficialità. Ma c’è anche un altro modo d’iniziare: far sgorgare quella melodia dalle profondità d’un silenzio assorto e misterioso, con piccoli sprofondamenti nell’assenza di suono in conformità alle pause, come da una regione nascosta, e con piccolissimi allungamenti della durata di certi suoni, come esitazioni. Allora, quelli che, altrimenti, suonano come sentimentalismi o semplici trovate a effetto, diventano tragici abbandoni, singhiozzi, spezzature dell’anima o aperture luminose.
Possiamo fare un esperimento con alcuni incipit delle suite per violoncello solo di Bach. Bisogna non solo ascoltare o ammirare la tecnica del violoncellista, ma dare un senso spirituale, ad esempio, alle volute che si ripetono sulla nota base della Suite n. 1; alla scala discendente che sprofonda in una voragine della
Suite n. 3; al contrario, alle arcate violente che cavano il suono sollevandolo dalla voragine, della Suite n. 5 in do; oppure alla cantilena della Suite n. 6. Se ci rendiamo conto di cose di questo genere, sappiamo leggere la musica radicandola nei nostri silenzi: silenzio dell’esecuzione e silenzio dell’ascolto. Del resto: perché si chiede il silenzio esteriore come condizione per iniziare un’esecuzione, se non per poter fare emergere il silenzio interiore?
Quando la musica si spegne, si riapre lo spazio del silenzio. Ma, il silenzio, per così dire, di arrivo, non è uguale al silenzio di partenza. La musica ha agito su di noi, è nata dal nostro silenzio ma prosegue la sua opera nel nuovo silenzio, quando s’è spenta la sua voce fisica. La musica ha una forza trasformatrice. Come dovrebbero concludersi i concerti? Non tutti allo stesso modo. Dipende dai caratteri della musica e dalla capacità del pubblico di farsi penetrare dalla musica. Certamente, gli applausi liberi o ritmati, i “bravo!”, i battiti di piedi sono giustificati nei tanti casi in cui la musica, come si dice, “chiama all’applauso”, eccitando i sensi e gli spiriti. Ma non sempre deve essere così. Ascoltate il finale del Trio n. 2 (piano, violino e violoncello) di Shostakovich e dite se viene voglia di battere non importa che cosa, invece di stare racchiusi in se stessi in un confronto interiore. Forse, qualcuno conosce la meravigliosa esecuzione del IV e ultimo tempo – Adagio – della
IX Sinfonia di Mahler diretta da Claudio Abbado nell’agosto 2010 a Lucerna. Esauritasi l’ultima nota, tutti, proprio tutti rimasero immobili, concentrati, immersi nel proprio religioso silenzio per quasi due minuti. Era finita l’esecuzione, ma non la musica.
(*) Estratto dell’intervento tenuto all’Università di Bologna in memoria di Pier Ugo Calzolari, rettore dell’Alma Mater dal 2000 al 2009
Repubblica, 10 dicembre 2015