Libertà e Giustizia è stata presente alla manifestazione organizzata il 14 novembre a Roma dalle Agende Rosse e dalla Scorta civica, stringendosi con migliaia di persone in un forte abbraccio a sostegno del giudice Nino Di Matteo. La difesa consapevole dei valori e dei diritti universali sanciti dalla nostra Costituzione è il principale fondamento della lotta alle mafie e alla corruzione dilagante: con le parole di don Luigi Ciotti, “il primo testo antimafia è la nostra Costituzione”. E’ nella Costituzione che trovano le loro radici le robuste garanzie di indipendenza della magistratura dal potere politico, le stesse che hanno consentito al giudice Di Matteo e ad altri coraggiosi magistrati di condurre inchieste scomode, un’autonomia continuamente sfidata dal disegno di chi ha tutto l’interesse a mettere il potere giudiziario al guinzaglio. E’ la Costituzione che garantisce diritti di cittadinanza su basi universalistiche e prosciuga così il brodo di coltura delle organizzazioni mafiose e della corruzione organizzata, che tutti quei diritti – alla sicurezza, alla partecipazione democratica, alla libertà d’impresa, etc. – li negano o li sviliscono, trasformandoli in merce di scambio o in strumento di dominio. Quella delle mafie è una dittatura invisibile ma feroce, contro la quale negli ultimi decenni è toccato ad alcuni giudici guidare la lotta di resistenza, pagando per questo un prezzo altissimo. Ma c’è al loro fianco una società civile che resiste, la stessa che ha riempito la piazza a sostegno del giudice Di Matteo, quella stessa che anche nelle terre di più spietata oppressione mafiosa si mobilita per strappare alla mafia i beni comuni saccheggiati e gli stessi diritti di cittadinanza, restituendoli alla collettività.
La manifestazione si è tenuta a Roma, la città che ha visto emergere di recente una nuova saldatura tra politica corrotta e poteri criminali, come in un esperimento di laboratorio la capitale d’Italia è diventata sede della prima “mafia a chilometro zero”, una mafia autoctona, “fai da te”, finalizzata essenzialmente a regolare le trattative tra i partecipanti al gioco sporco della corruzione, lo stesso che ormai “rende di più del traffico di droga”. Il giudice Paolo Borsellino ebbe questa intuizione: Mafia e Stato sono due poteri che si contendono il medesimo territorio: o si fanno la guerra, o si mettono d’accordo. La storia di questo paese dimostra che il “mettersi d’accordo” è stata di gran lunga la strategia dominante. Ma all’ombra della “madre di tutte le trattative” tra mafia e pezzi deviati dello Stato, quella oggetto dell’inchiesta condotta dal giudice Di Matteo, oggi come ieri una sequenza interminabile di accordi, negoziati, scambi occulti e inconfessabili legano la politica corrotta e la criminalità mafiosa, inoculando tossine nel gioco democratico, nel mercato, nella vita sociale. Ed è solo grazie all’opera paziente, al lavoro tenace e spesso eroico di alcuni magistrati e investigatori che oggi – proprio come Pierpaolo Pasolini nel suo celebre scritto “Io so” – anche noi possiamo dire di sapere. Sappiamo che uomini delle istituzioni hanno tradito gli interessi pubblici loro affidati scendendo a patti con le organizzazioni criminali, possiamo leggere “nero su bianco” negli eventi più drammatici della nostra storia le clausole dei loro accordi scellerati, scritte col sangue delle vittime di mafia. Possiamo dire “io so” perché grazie al lavoro difficile di uomini come Di Matteo abbiamo oggi prove, informazioni, conoscenze che ci permettono – con le parole di Pasolini – “di coordinare fatti lontani, di mettere insieme i pezzi disorganizzati e frammentari in un coerente quadro politico, che ristabilisce la logica dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia, il mistero”.
Dobbiamo essere grati a chi ci ha permesso la ricostruzione di queste verità storiche, l’assemblaggio dei frammenti sparsi che diventano un “quadro coerente”: la rappresaglia mafiosa per l’esito del maxiprocesso che si ritorce sugli esponenti della corrente andreottiana, la fibrillazione di chi teme di essere nel mirino, e poi dopo che un nuovo equilibrio tra mafia e politica è stato sancito sono i magistrati che diventano il bersaglio, quindi le stragi mafiose nelle città preparano il terreno per la trionfale discesa in campo di un nuovo partito che raccoglierà consensi plebiscitari in Sicilia, organizzato da un manager di Publitalia oggi condannato per concorso esterno in associazione mafiosa.
Prosegue amaramente Pasolini: “Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia”. Lo dimostra la colpevole impudenza con cui la classe politica cerca di trasformare un’assoluzione da responsabilità penali – o magari una prescrizione –in un lavacro capace di purificare gli imputati da qualsiasi responsabilità politica e morale. E’ per testimoniare la nostra consapevolezza di questa verità storica che occorre mobilitarci, nello sforzo di costruire finalmente una memoria condivisa. E’ un impegno oggi più che mai necessario, in un paese dove negli anni autorevoli uomini di Stato sono passati disinvoltamente dal disconoscimento dell’esistenza stessa dalla mafia, alla negazione dell’esistenza di penetrazioni criminali nel centro-nord, alla tesi che con la mafia bisogna convivere. No, con la mafia non si può convivere, se non scendendo a patti che sono la negazione stessa del vivere civile.
Il Galileo di Bertolt Brecht afferma “sventurata la terra che ha bisogno d’eroi”. Il nostro impegno sarà premiato soltanto quando al giudice Di Matteo e agli altri valorosi servitori dello Stato che operano con “disciplina e onore” in condizioni estreme, mettendo a repentaglio la propria stessa incolumità, non sarà più richiesto l’eroismo quotidiano che dedicano al servizio del bene comune. E la nostra terra sarà per questo un po’ meno sventurata.
(*) Alberto Vannucci è Presidente di Libertà e Giustizia
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