Davanti ad un notaio s’è certificata la fine di un’esperienza politica, senza che ne venisse coinvolta l’istituzione rappresentativa. Nulla di illegittimo può essere rilevato. Il caso di auto-scioglimento del consiglio per dimissioni della maggioranza dei consiglieri rientra tra quelli previsti dal testo unico sugli enti locali (art. 141). Così come è indicata la possibilità di revocare le dimissioni presentate dal sindaco entro il termine di 20 giorni (art. 53).
Dunque, entrambi gli atti che hanno caratterizzato la vicenda romana sono stati possibili ai sensi di legge. Eppure, per via legale, si è prodotto un vulnus al sistema della rappresentanza democratica.
Non aver coinvolto il consiglio comunale, non aver espresso il proprio dissenso in quella sede, assumendosi — ciascun consigliere — la responsabilità politica della presentazione di una mozione motivata di sfiducia, come indicato sempre dalla stessa legge (art. 52), appare una scelta significativa della concezione di democrazia che ormai domina. Non è solo il caso di Roma, bensì un modo di operare che rivela una cultura politica del tutto insofferente al ruolo delle istituzioni. Una politica che si fa altrove, all’esterno dei palazzi della politica, dentro le stanze chiuse dei potenti.
Basta ripercorrere le più rilevanti vicende degli ultimi mesi e ci si avvede come tutti i passaggi più importanti si siano consumati fuori da ogni regola istituzionale e non nelle sedi proprie. Anzitutto il cambio di governo, deciso dalla direzione di un partito, senza alcun coinvolgimento parlamentare.
Ma anche l’accordo per la modifica della costituzione e sulla legge elettorale, prima concordato in un incontro tra due leader (Berlusconi e Renzi) svolto in un luogo riservato senza alcuna pubblicità e trasparenza, poi — a seguito delle convulse e note vicende — rinegoziato tra pochi esponenti di un unico partito e con l’aiuto di una drappello di senatori senza partito.
I riflessi di questo modo di procedere hanno portato ad un sostanziale svuotamento dei luoghi della rappresentanza.
Si pensi al (non) dibattito parlamentare tanto sulla legge elettorale quanto sulla riforma costituzionale: s’è fatto di tutto per evitare il confronto nel merito. In Parlamento, venute meno le condizioni per una discussione sulle diverse visioni di democrazia che potevano portare a legittimare le singole proposte, ci si è limitati a interpretare il regolamento e ad utilizzarlo nel modo più disinvolto (a volte ben oltre il possibile) al solo fine di conseguire il risultato (le forze di maggioranza) ovvero limitandosi ad urlare alla luna (le forze di opposizione).
Così abbiamo assistito ad un ben triste spettacolo: rimozioni in massa di parlamentari dalle commissioni, richieste di disciplina in materie di coscienza, fissazione di tempi che impedivano alle commissioni di svolgere il proprio ruolo istruttorio per arrivare direttamente in aula senza relatori, senza testo base, senza parole meditate. In un arena ove l’unico obiettivo era quello di sfidare la sorte dei numeri, facendo assegnamento sulla propria capacità tattica, non certo confidando sulla forza della persuasione e sulla capacità di conseguire un nobile compromesso parlamentare nel merito delle proposte.
D’altronde, anche l’opposizione ha mostrato il proprio sbandamento. Partecipando a questa spettacolarizzazione anch’essa, a volte, non ha preso troppo sul serio la dignità del Parlamento. Un po’ come Marino, anche l’opposizione si “dimetteva” a giorni alterni. Un giorno un po’ di Aventino, il giorno dopo un po’ d’Aula. Non mi sembra si sia riusciti in tal modo a far chiaramente emergere le reali ragioni di una battaglia politica di contrasto così importante, a tutto vantaggio dell’uso retorico delle istituzioni perseguito dalla maggioranza.
Due passaggi mi sembrano possano sintetizzare — anche in termini metaforici — lo stato di crisi delle istituzioni rappresentative. Da un lato la presentazione da parte del senatore Calderoli di milioni di emendamenti inconsulti elaborati da un algoritmo, dall’altro l’interpretazione disinvolta (a mio parere illegittima) dei regolamenti parlamentari che hanno impedito la discussione su tutto, in particolare con l’invenzione del cosiddetto “canguro”. Una riforma costituzionale dunque affidata ad un metodo di calcolo e ad un animale della famiglia dei macropodidi. Credo ci si sia fatti prendere la mano.
Eppure dietro tutte queste forzature c’è una spiegazione: la perdita del senso delle istituzioni. Nessuno sembra più credere in esse. La politica si svolge altrove, non possiede più forme. La decisione è assunta tra pochi, in luoghi e con mezzi indeterminati: sms, dialoghi diretti, messaggi indiretti, affidamenti individuali o garanzie prestate da gruppi d’interesse. Poi, fatta in tal modo la scelta, essa viene divulgata attraverso una strategia ad effetto che non prevede passaggi istituzionali, bensì mero spettacolo. A questo punto, il passaggio istituzionale, se non può essere evitato, diventa però unicamente un intralcio, che deve essere gestito con qualche insofferenza. Sopportato come un “costo” della democrazia, non certo come sua essenza e valore.
Un atteggiamento psicologico, caratteriale e culturale, prima ancora che espressione di una consapevole strategia politica potenzialmente eversiva. Il nuovo ceto politico ha costantemente teso ad eludere il confronto istituzionale, anche quello interno alle istanze di partito. Primarie “aperte”, per sconfiggere le burocrazie e rovesciare gli equilibri interni; direzioni in streeming, per parlare con l’opinione pubblica, non certo per tessere una strategia condivisa entro una comunità politica; rapporti diretti con i politici locali da sostenere (Pisapia e il “modello milanese” dell’Expo) ovvero da abbandonare (Marino e la mancanza di anticorpi romani).
I comportamenti extraistituzionali diffusi, che caratterizzano il ritorno della politica oggi, sono stati favoriti dalle politiche di ieri. Sono anni che si denuncia la crisi del Parlamento, delle rappresentanze locali, del ruolo istituzionale dei partiti. Ciò nonostante, perlopiù, si è preferito cavalcare l’insofferenza, raccogliere un facile consenso scagliando pietre contro i Palazzi della politica, nessuno volendo raccogliere la sfida complessa di un reale cambiamento delle istituzioni operando al loro interno, nel rispetto delle regole del gioco democratico.
Una sottovalutazione imperdonabile che rischia di svuotare di ogni ruolo la rappresentanza. Ci si potrebbe alla fine chiedere perché tornare a votare per un consiglio comunale che non conta nulla, nulla decide e nulla può fare. Meglio affidarsi ad un commissario prefettizio. In fondo la storia ci ha già detto che esiste una “istituzione” in grado di operare in situazioni di emergenza: il dictator commissario ha salvato più di una volta Roma. Poi è arrivato Giulio Cesare e la dittatura è diventata sovrana, ponendo fine alla repubblica.
Il Manifesto, 4 novembre/2015