Lo sfregio romano benzina sull’astensionismo

06 Novembre 2015

Davanti ad un notaio s’è cer­ti­fi­cata la fine di un’esperienza poli­tica, senza che ne venisse coin­volta l’istituzione rap­pre­sen­ta­tiva. Nulla di ille­git­timo può essere rile­vato. Il caso di auto-scioglimento del con­si­glio per dimis­sioni della mag­gio­ranza dei con­si­glieri rien­tra tra quelli pre­vi­sti dal testo unico sugli enti locali (art. 141). Così come è indi­cata la pos­si­bi­lità di revo­care le dimis­sioni pre­sen­tate dal sin­daco entro il ter­mine di 20 giorni (art. 53).

Dun­que, entrambi gli atti che hanno carat­te­riz­zato la vicenda romana sono stati pos­si­bili ai sensi di legge. Eppure, per via legale, si è pro­dotto un vul­nus al sistema della rap­pre­sen­tanza democratica.

Non aver coin­volto il con­si­glio comu­nale, non aver espresso il pro­prio dis­senso in quella sede, assu­men­dosi — cia­scun con­si­gliere — la respon­sa­bi­lità poli­tica della pre­sen­ta­zione di una mozione moti­vata di sfi­du­cia, come indi­cato sem­pre dalla stessa legge (art. 52), appare una scelta signi­fi­ca­tiva della con­ce­zione di demo­cra­zia che ormai domina. Non è solo il caso di Roma, bensì un modo di ope­rare che rivela una cul­tura poli­tica del tutto insof­fe­rente al ruolo delle isti­tu­zioni. Una poli­tica che si fa altrove, all’esterno dei palazzi della poli­tica, den­tro le stanze chiuse dei potenti.

Basta riper­cor­rere le più rile­vanti vicende degli ultimi mesi e ci si avvede come tutti i pas­saggi più impor­tanti si siano con­su­mati fuori da ogni regola isti­tu­zio­nale e non nelle sedi pro­prie. Anzi­tutto il cam­bio di governo, deciso dalla dire­zione di un par­tito, senza alcun coin­vol­gi­mento parlamentare.

Ma anche l’accordo per la modi­fica della costi­tu­zione e sulla legge elet­to­rale, prima con­cor­dato in un incon­tro tra due lea­der (Ber­lu­sconi e Renzi) svolto in un luogo riser­vato senza alcuna pub­bli­cità e tra­spa­renza, poi — a seguito delle con­vulse e note vicende — rine­go­ziato tra pochi espo­nenti di un unico par­tito e con l’aiuto di una drap­pello di sena­tori senza partito.

I riflessi di que­sto modo di pro­ce­dere hanno por­tato ad un sostan­ziale svuo­ta­mento dei luo­ghi della rappresentanza.

Si pensi al (non) dibat­tito par­la­men­tare tanto sulla legge elet­to­rale quanto sulla riforma costi­tu­zio­nale: s’è fatto di tutto per evi­tare il con­fronto nel merito. In Par­la­mento, venute meno le con­di­zioni per una discus­sione sulle diverse visioni di demo­cra­zia che pote­vano por­tare a legit­ti­mare le sin­gole pro­po­ste, ci si è limi­tati a inter­pre­tare il rego­la­mento e ad uti­liz­zarlo nel modo più disin­volto (a volte ben oltre il pos­si­bile) al solo fine di con­se­guire il risul­tato (le forze di mag­gio­ranza) ovvero limi­tan­dosi ad urlare alla luna (le forze di opposizione).

Così abbiamo assi­stito ad un ben tri­ste spet­ta­colo: rimo­zioni in massa di par­la­men­tari dalle com­mis­sioni, richie­ste di disci­plina in mate­rie di coscienza, fis­sa­zione di tempi che impe­di­vano alle com­mis­sioni di svol­gere il pro­prio ruolo istrut­to­rio per arri­vare diret­ta­mente in aula senza rela­tori, senza testo base, senza parole medi­tate. In un arena ove l’unico obiet­tivo era quello di sfi­dare la sorte dei numeri, facendo asse­gna­mento sulla pro­pria capa­cità tat­tica, non certo con­fi­dando sulla forza della per­sua­sione e sulla capa­cità di con­se­guire un nobile com­pro­messo par­la­men­tare nel merito delle proposte.

D’altronde, anche l’opposizione ha mostrato il pro­prio sban­da­mento. Par­te­ci­pando a que­sta spet­ta­co­la­riz­za­zione anch’essa, a volte, non ha preso troppo sul serio la dignità del Par­la­mento. Un po’ come Marino, anche l’opposizione si “dimet­teva” a giorni alterni. Un giorno un po’ di Aven­tino, il giorno dopo un po’ d’Aula. Non mi sem­bra si sia riu­sciti in tal modo a far chia­ra­mente emer­gere le reali ragioni di una bat­ta­glia poli­tica di con­tra­sto così impor­tante, a tutto van­tag­gio dell’uso reto­rico delle isti­tu­zioni per­se­guito dalla maggioranza.

Due pas­saggi mi sem­brano pos­sano sin­te­tiz­zare — anche in ter­mini meta­fo­rici — lo stato di crisi delle isti­tu­zioni rap­pre­sen­ta­tive. Da un lato la pre­sen­ta­zione da parte del sena­tore Cal­de­roli di milioni di emen­da­menti incon­sulti ela­bo­rati da un algo­ritmo, dall’altro l’interpretazione disin­volta (a mio parere ille­git­tima) dei rego­la­menti par­la­men­tari che hanno impe­dito la discus­sione su tutto, in par­ti­co­lare con l’invenzione del cosid­detto “can­guro”. Una riforma costi­tu­zio­nale dun­que affi­data ad un metodo di cal­colo e ad un ani­male della fami­glia dei macro­po­didi. Credo ci si sia fatti pren­dere la mano.

Eppure die­tro tutte que­ste for­za­ture c’è una spie­ga­zione: la per­dita del senso delle isti­tu­zioni. Nes­suno sem­bra più cre­dere in esse. La poli­tica si svolge altrove, non pos­siede più forme. La deci­sione è assunta tra pochi, in luo­ghi e con mezzi inde­ter­mi­nati: sms, dia­lo­ghi diretti, mes­saggi indi­retti, affi­da­menti indi­vi­duali o garan­zie pre­state da gruppi d’interesse. Poi, fatta in tal modo la scelta, essa viene divul­gata attra­verso una stra­te­gia ad effetto che non pre­vede pas­saggi isti­tu­zio­nali, bensì mero spet­ta­colo. A que­sto punto, il pas­sag­gio isti­tu­zio­nale, se non può essere evi­tato, diventa però uni­ca­mente un intral­cio, che deve essere gestito con qual­che insof­fe­renza. Sop­por­tato come un “costo” della demo­cra­zia, non certo come sua essenza e valore.

Un atteg­gia­mento psi­co­lo­gico, carat­te­riale e cul­tu­rale, prima ancora che espres­sione di una con­sa­pe­vole stra­te­gia poli­tica poten­zial­mente ever­siva. Il nuovo ceto poli­tico ha costan­te­mente teso ad elu­dere il con­fronto isti­tu­zio­nale, anche quello interno alle istanze di par­tito. Pri­ma­rie “aperte”, per scon­fig­gere le buro­cra­zie e rove­sciare gli equi­li­bri interni; dire­zioni in stree­ming, per par­lare con l’opinione pub­blica, non certo per tes­sere una stra­te­gia con­di­visa entro una comu­nità poli­tica; rap­porti diretti con i poli­tici locali da soste­nere (Pisa­pia e il “modello mila­nese” dell’Expo) ovvero da abban­do­nare (Marino e la man­canza di anti­corpi romani).

I com­por­ta­menti extrai­sti­tu­zio­nali dif­fusi, che carat­te­riz­zano il ritorno della poli­tica oggi, sono stati favo­riti dalle poli­ti­che di ieri. Sono anni che si denun­cia la crisi del Par­la­mento, delle rap­pre­sen­tanze locali, del ruolo isti­tu­zio­nale dei par­titi. Ciò nono­stante, per­lo­più, si è pre­fe­rito caval­care l’insofferenza, rac­co­gliere un facile con­senso sca­gliando pie­tre con­tro i Palazzi della poli­tica, nes­suno volendo rac­co­gliere la sfida com­plessa di un reale cam­bia­mento delle isti­tu­zioni ope­rando al loro interno, nel rispetto delle regole del gioco democratico.

Una sot­to­va­lu­ta­zione imper­do­na­bile che rischia di svuo­tare di ogni ruolo la rap­pre­sen­tanza. Ci si potrebbe alla fine chie­dere per­ché tor­nare a votare per un con­si­glio comu­nale che non conta nulla, nulla decide e nulla può fare. Meglio affi­darsi ad un com­mis­sa­rio pre­fet­ti­zio. In fondo la sto­ria ci ha già detto che esi­ste una “isti­tu­zione” in grado di ope­rare in situa­zioni di emer­genza: il dic­ta­tor com­mis­sa­rio ha sal­vato più di una volta Roma. Poi è arri­vato Giu­lio Cesare e la dit­ta­tura è diven­tata sovrana, ponendo fine alla repubblica.

 Il Manifesto,  4 novembre/2015

 

 

 

 

 

 

 

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