L’accordo è netto sul fatto che l’Europa si sta giocando molto, e forse tutto, sui migranti. «Senza un piano concreto, sarà la fine dell’Unione che conosciamo», ha avvertito il premier sloveno, Miro Cerar, all’avvio del minisummit convocato dal presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker, per cercare di frenare l’onda di rifugiati sulla via balcanica verso la Germania e il Nord. Poco prima, il numero due dell’esecutivo comunitario, Frans Timmermans, aveva ammesso che in effetti «si rischia la disintegrazione». Da due punti di vista diversi, Lubiana e Bruxelles lanciavano il medesimo segnale d’allarme. Cioè che la marea che i più avevano previsto – e che la politica ha lungamente trascurato se non per usarla in chiave populista – sta facendo tremare le fondamenta di un’Unione divisa e anche un poco stanca, minacciata dagli effetti delle guerre e vittima dei suoi stessi compromessi al ribasso.
L’intesa raggiunta intorno a mezzanotte è meno definita, richiederà altro lavoro. I leader balcanici, riuniti con quelli di Germania, Austria, Ungheria, Romania, Bulgaria e Grecia, hanno annunciato che entro l’anno cresceranno i margini di accoglienza di Atene (30 mila) e 50 mila migranti saranno presi in carico nei Balcani dall’Agenzia Onu per i Rifugiati, che pure creerà ventimila opportunità per famiglie di in terra ellenica: in totale, fa 100 mila posti, ha precisato Juncker. Previsto l’invio di 400 guardie di frontiera nei Balcani Occidentali e l’aumento degli sforzi nell’Egeo. «Nessuno deve più lasciar passare i rifugiati», ha precisato Frau Merkel, annunciando uno scambio di informazioni settimanale fra le capitali. «Ma se Berlino chiude i confini, cosa vi aspettate che si faccia, noi?», ha notato il serbo Vucic.
L’esclusione dell’Italia
Un vertice difficile sin dal principio. Problemi anche sulla formula, inedita e con troppi esclusi, a partire dall’Italia. È un segreto di Pulcinella che così abbia voluto una Merkel bisognosa di una via di fuga rispetto alla politica delle «porte aperte» ai migranti, annunciata fra le fanfare e corretta per ragioni di politica interna. Il ministro delle Finanze Schaeuble risulta aver parlato di un clima «pessimo» fra i cristiano democratici e del rischio crescente di un terremoto nel partito. Un sondaggio Emnid apparso sulla Bild suggerisce che se si votasse ora la Cdu/Csu avrebbe sei punti in meno del 2013, si fermerebbe al 36%. La cancelliera deve salvare se stessa e puntellare un’Ue scossa. Ma né l’una né l’altra cosa sono semplici.
I rifugiati continuano a fuggire, da Siria, Iraq, Afghanistan. Il muro ungherese ha solo spostato i flussi. L’ultima a finire sotto pressione è stata la Slovenia, un Paese con due milioni di abitanti che solo ieri ha visto arrivare 15 mila persone (fonti governative). La Bbc parla di una «coda immensa» alla frontiera fra Serbia e Croazia. Sulla rotta dei Balcani sono passati oltre 250 mila nell’ultimo mese, mentre la serie di riunioni al vertice Ue ha indicato soluzioni tecniche senza cucirne alcuna capace di esprime la forza che nel migliore dei mondi possibili dovrebbe venire dall’Ue. Ieri sera c’era chi paventava il riaprirsi di una rotta adriatica fra Albania e Italia. «Basta coi confini aperti», ha comunque attaccato il magiaro Viktor Orban, ispiratore della nuova destra polacca. Risponde Angela Merkel che «tempi eccezionali richiedono misure eccezionali». Ci vorrebbe soprattutto l’unità politica. Sinora non è stata abbastanza.
La Stampa, 26 ottobre 2015