Cosa resta della politica se la tv diventa il nemico

06 Ottobre 2015

La polemica tra leader politici e giornalisti tv è una costante in Italia, da almeno un paio di decenni. Ma il discorso cambia quando le tensioni si accendono fra esponenti di centro-sinistra e programmi di Rai 3. La rete “amica”. Storicamente. Così, i dissensi espressi dal premier contro il Tg3 e, anzitutto, contro Ballarò, il talk “politico” del martedì, hanno suscitato sorpresa e molte critiche. Intimidazioni all’autonomia e alla libertà dell’informazione. Tanto che si è parlato di “editto bulgaro”. Echeggiando le dichiarazioni di Silvio Berlusconi – al tempo capo del governo – pronunciate a Sofia, nel 2002, contro Michele Santoro, Enzo Biagi e Daniele Luttazzi. Puntualmente allontanati dalla Rai.

Tuttavia, è difficile assimilare Renzi a Berlusconi. Nonostante le analogie. Perché Renzi non è affetto né afflitto dal conflitto di interessi. Non è proprietario dell’azienda concorrente della Rai. Non può trarre vantaggi economici e di affari dalle sorti delle reti radiotelevisive pubbliche. Peraltro, mi riesce difficile anche vedere i vantaggi politici di questa iniziativa. Perché non solo il Tg3, ma, soprattutto, Ballarò ora appaiono più forti. Ballarò, in particolare. Subisce, da oltre un anno, la crisi che investe tutti i talk politici. “Affaticati” dalla moltiplicazione di programmi analoghi, a ogni ora del giorno, in ogni rete. Penalizzati dal deteriorarsi del “contenuto e dei protagonisti della politica italiana”: i partiti e i politici. Ballarò, per questo, ha continuato a perdere ascolti. Non solo per la concorrenza, su La7, del clone guidato dal suo storico conduttore, Giovanni Floris. Ma, come si è detto, per l’esaurirsi di un format.

L’intervento di Renzi e di alcuni parlamentari a lui vicini, come Michele Anzaldi, rischia però di produrre un esito opposto alle intenzioni. Perché adesso sarà difficile “metter mano” su Ballarò e sui programmi di informazione di Rai 3 senza evocare editti bulgari. Senza riesumare i fantasmi della censura. L’ombra del Cavaliere. Risulta difficile, per questo, sovrapporre l’immagine di Renzi a quella di Berlusconi. Per la stessa ragione, è difficile scacciare questo accostamento. Non per ragioni polemiche. Matteo Renzi: non è il “Cavaliere mascherato”. Ma è indubbio che sia, anzi è, un leader post-berlusconiano. Come, peraltro, lo sono tutti i leader e tutti i partiti “dopo” Berlusconi. Perché, lo sappiamo, “dopo” Berlusconi la politica è cambiata. Meglio: era già cambiata da tempo. Ma la sua discesa in campo ha impresso un’accelerazione evidente a questa trasformazione. I partiti si sono personalizzati. E, allo stesso tempo, hanno progressivamente abbandonato la società e il territorio. Sostituiti dai media. E, in particolare, dalla televisione. In misura crescente, ma ancora più limitata, dalla rete.

Rammentiamo, a questo proposito, i dati dell’ultimo sondaggio di Demos-Coop, dedicato al rapporto fra “Gli italiani e l’informazione” (novembre 2014). L’indagine, infatti, rileva come oltre l’80% degli italiani, per informarsi, utilizzi quotidianamente la televisione. Mentre quasi il 50% ricorre a Internet (10 punti in più rispetto al 2012). Molto minore è, invece, l’accesso ad altri media. Radio (39%) e quotidiani (24%), in particolare. Se, però, ci concentriamo sul pubblico dei talk, la specificità di Ballarò risulta molto chiara. Un anno fa, almeno, (e non c’è motivo di credere che l’orientamento, da allora, sia mutato) la trasmissione condotta da Giannini riscuoteva il gradimento del 55% della base del Pd. Era, inoltre, apprezzata da circa il 60% tra gli elettori di sinistra. In altri termini: per quanto in declino di ascolti, Ballarò costituisce (o almeno costituiva) un riferimento attendibile e credibile per la maggioranza degli elettori del Pd. E soprattutto per le componenti di sinistra. Così si spiega la “sensibilità reattiva” di Renzi e del suo Pd, il PdR, nei confronti dei programmi di informazione e dei talk politici della Terza rete. Al Premier, infatti, come ha ben sottolineato ieri Eugenio Scalfari, “piace piacere”. A tutti. Ma, soprattutto, alla base elettorale del suo partito. Per la stessa ragione, è attento ai luoghi dove si forma l’opinione ostile alla sua politica. Soprattutto nel suo partito. Perché l’opposizione più insidiosa al PdR, in questa fase, proviene dalle fila del Pd senza la R. Così Renzi – e gli esponenti che gli sono più vicini – criticano le reti e i talk televisivi perché lì si è trasferita la politica. Inseguendo, si dice, il “modello americano” del partito “elettorale”. Ma negli Usa si vota spesso, per selezionare i candidati ed eleggere diverse cariche. E i partiti – non ideologici, né burocratici – in campagna elettorale riescono a coinvolgere molti volontari, che fanno “porta a porta”. Mentre in Italia i leader vanno in Tv, a “Porta a porta”, per farsi intervistare da Bruno Vespa.

Negli Usa, inoltre, i partiti elaborano mappe aggiornate delle principali città, con gli orientamenti elettorali precisati quartiere per quartiere, strada per strada. Un “controllo politico” sulla società e sul territorio che, in Italia, avveniva solo al tempo dei partiti di massa. Ma oggi, in Italia, non c’è più religione politica. Il che è meglio. Ma c’è anche poca politica. Dopo Berlusconi, nell’epoca del post-berlusconismo, sono scesi in campo i “post-partiti” (evocati dal titolo di un recente saggio di Paolo Mancini, per il Mulino), guidati da leader post-politici. Abili e visibili in Tv. E sulla Rete. Come Matteo Renzi. Leader del Post-Pd. Oltre Berlusconi, per tecnologia e stile di comunicazione.

 

Così, chi crede ancora nella politica come luogo di partecipazione sociale e di organizzazione del territorio, oltre che di decisione pubblica, oggi rischia di scoprirsi fuori luogo e fuori tempo. A-topico e A-cronico. Ma è un rischio che, forse, vale la pena di affrontare.

 Repubblica, 5 ottobre 2015

 

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