LETTERA APERTA A VANNINO CHITI: DALLA DEMOCRAZIA PARLAMENTARE ALLA LEADERCRAZIA SORRIDENTE

26 Settembre 2015

Insomma, gentile Onorevole, l’elettività dei Senatori (intermediata dalla ratifica ad opera dei Consigli regionali: a questo punto, percepita come un inutile appesantimento del processo di selezione dei membri della Camera alta) attenua ma non esclude il pericolo della “svolta autoritaria” più volte denunciato da Gustavo Zagrebelsky, rallenta ma non neutralizza il passaggio dalla democrazia parlamentare a quella sorta di leadercrazia sorridente di cui il Presidente del Consiglio continua ad immaginarsi regista e primo attore.

 

 

Gentile Senatore,

ho letto con attenzione il suo articolo pubblicato su “Huffington post”, nel quale descrive il confronto sulle riforme istituzionali consumatosi in seno al Partito democratico come produttivo di una mediazione “degna della nostra Costituzione”. Proprio in ordine all’esito di tale confronto – anche alla luce delle posizioni da Lei coerentemente sostenute in questi mesi – ritengo opportuno spendere qualche considerazione ulteriore, per valutare se la riforma in atto possa considerarsi effettivamente “degna” della nostra Carta Fondamentale, e se la mediazione a cui Lei si richiama non si sia di fatto tradotta, per la minoranza interna, nell’ennesima occasione mancata.

Circa la “dignità costituzionale” delle proposte da Lei avanzate, se da un lato non si può dubitare del fatto che l’elettività dei senatori e l’attribuzione alla nuova Camera alta di più penetranti funzioni di garanzia abbiano limitato alcune delle più evidenti storture del ddl Boschi, è dall’altro innegabile che la “mediazione” consacrata nei tre emendamenti al momento all’esame del Senato non abbia inciso sulle principali criticità del disegno riformatore in atto. Continua infatti a non ravvisarsi, tra le varie forze presenti in Parlamento, quel substrato di valori comuni da cui trae vita il “compromesso alto” nel quale ogni Costituzione si identifica; persiste l’anomalia costituita da un Governo che di fatto ancora il destino della legislatura ad una materia (come quella delle riforme costituzionali) di esclusiva competenza parlamentare; emergono quotidianamente (anche attraverso le dichiarazioni ultimative rivolte all’indirizzo del Presidente Grasso) i limiti di una classe dirigente forse non all’altezza di riformare quell’autentico capolavoro di ingegneria giuridica che è la Carta elaborata da Calamandrei e Mortati; rimane fermo l’ordito normativo (composto dall’Italicum e dal ddl Boschi) che assegna al leader del partito di maggioranza il controllo pressoché totale delle istituzioni.

Insomma, gentile Onorevole, l’elettività dei Senatori (intermediata dalla ratifica ad opera dei Consigli regionali: a questo punto, percepita come un inutile appesantimento del processo di selezione dei membri della Camera alta) attenua ma non esclude il pericolo della “svolta autoritaria” più volte denunciato da Gustavo Zagrebelsky, rallenta ma non neutralizza il passaggio dalla democrazia parlamentare a quella sorta di leadercrazia sorridente di cui il Presidente del Consiglio continua ad immaginarsi regista e primo attore.

Le riflessioni appena formulate ci portano a esaminare i contorni dell’occasione mancata dalla minoranza del PD, apparsa, ancora una volta, più preoccupata di salvaguardare l’unità del partito che di preservare certi valori fondamentali: dinanzi alle continue esondazioni di un Segretario che basa la sua leadership più sulla fidelizzazione che sul confronto, la minoranza interna ha avuto l’opportunità di certificare agli occhi dei cittadini – se del caso, anche attraverso il voto parlamentare –  l’esistenza di un “Partito della Costituzione” non disposto a scambiare la “buona manutenzione costituzionale” (praticabile attraverso interventi circoscritti, come la riduzione del numero dei deputati e dei senatori, la riforma del sistema delle immunità, l’integrazione del Senato con alcuni rappresentati delle autonomie locali) con il radicale stravolgimento della forma di governo delineata dalla Carta, di una sinistra che non accetta compromessi su quegli stessi valori fondamentali a cui ho poc’anzi fatto cenno. Sarebbe stato, a quel punto, onere e responsabilità del segretario – premier (altra insopportabile anomalia italiana) scegliere se preservare l’unità del partito impostando l’azione di governo in osservanza di questi valori fondamentali, o se procedere in spregio di essi, cercando il consenso di altre forze politiche per supportare l’azione riformatrice del suo Esecutivo.

Con la mediazione consacrata nei tre emendamenti al ddl Boschi, la minoranza del PD ha scelto una diversa strada: quella di un accordo che attenua ma non risolve le criticità della riforma costituzionale di prossima approvazione, quella di un utile ma non decisivo compromesso al ribasso destinato ad assumere, nell’immediato futuro, i caratteri dell’ennesima occasione mancata.

Con immutata stima,

Carlo Dore jr.

Carlo Dore jr. è coordinatore del Circolo LeG di Cagliari

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