Nel giugno scorso i due amministratori delegati di Deutsche Bank hanno annunciato le loro dimissioni. Deutsche Bank è la più grande di tutte le banche tedesche e fino a poco fa era l’emblema del miracolo tedesco.
Ma dal 2012 si trova nei guai. Aveva scarsi mezzi propri, ha dovuto procedere a due aumenti di capitale, la redditività è ancora oggi molto bassa e è piena di problemi giudiziari. Tra il 2012 e il secondo trimestre 2015 ha dovuto pagare circa 10,5 miliardi di euro, una cifra enorme, per le controversie con le autorità statunitensi e europee: restano aperte le accuse di manipolazione dei tassi di cambio e dei prezzi delle materie prime, e di non rispettare le sanzioni Usa verso alcuni paesi.
Tanto che nel marzo 2015 il regolatore americano le ha proibito di distribuire dividendi a causa delle numerose carenze nella sua struttura del capitale, nel sistema di valutazione dei rischi, nei controlli interni — come racconta il nuovo libro del leader della sinistra francese Jean Luc Mélenchon, Le hareng de Bismarck (le poison allemand) (Plon, 2015). Nell’aprile scorso la banca ha poi dovuto annunciare la riduzione dell’investment banking e la cessione della Postbank, a suo tempo acquistata dal governo.
La crisi di Deutsche Bank è sintomatica della fragilità del sistema bancario tedesco, che oggi presenta risultati economici e finanziari molto negativi a tutti i livelli, con situazioni che in diversi casi non sono troppo distanti dalla bancarotta. In Europa le banche tedesche sono state tra le più toccate dalla crisi con circa il 40 per cento delle perdite della zona euro nel periodo 2007–2009. Il sistema bancario è poi riuscito a recuperare almeno una parte dei prestiti imprudenti grazie all’intervento del governo, che da una parte ha immesso molti soldi nel sistema per favorire il salvataggio di alcuni istituti e dall’altra è riuscito a manovrare in diversi casi a Bruxelles la partita delle ristrutturazioni finanziarie dei paesi in difficoltà — Grecia innanzi tutto — riuscendo a proteggere gli istituti nazionali.
Nel caso greco i verbali del Fondo monetario internazionale testimoniano come la ristrutturazione del debito del paese mediterraneo sia stata studiata in modo da far sì che una parte molto consistente delle risorse destinate a “salvare” la Grecia siano finite nelle casse della banche tedesche e francesi.
La concentrazione era iniziata da tempo, con la Postbank finita nelle mani della Deutsche Bank e poi rivenduta, e la HypoVereinsbank finita in quelle di Unicredit. La Dresdner Bank è entrata in difficoltà con lo scoppio della crisi ed è stata presto assorbita dalla Commerzbank. Quest’ultima, avendo digerito male la fusione, è stata salvata dal governo tedesco che ha dovuto a suo tempo investirci 18,2 miliardi di euro. Per stare a galla l’istituto ha chiesto, dal 2010 ad oggi, 17,4 miliardi di euro di capitali freschi ai suoi azionisti. Nel marzo del 2015 è stato costretto a pagare 1,5 miliardi di dollari per chiudere le indagini federali statunitensi che stavano esplorando il suo coinvolgimento in attività di riciclaggio del denaro sporco. Nel frattempo la sua redditività resta molto bassa.
Ma sono le banche piccole e medie — come le Casse di risparmio — a pesare di più in Germania, con una quota vicina al 90 per cento del mercato. Esse svolgono un ruolo fondamentale nel finanziamento dell’economia locale, ma si trovano in condizioni difficili e hanno bisogno di radicali ristrutturazioni. Anche diverse Landesbank — una sorta di istituti regionali — sono in una situazione sostanzialmente fallimentare; sono state colpite dalla crisi del subprime e le loro difficoltà, secondo cifre non ufficiali, sono costate al governo circa 23 miliardi di euro. La HSH Nordbank ha bisogno, secondo le stime, di circa 2,1 miliardi di risorse statali e la Bayern LB registra una perdita di 1,32 miliardi in alcune operazioni.
I piccoli e medi istituti sono strettamente legati ai poteri politici locali, e il governo tedesco vuole gestire la ristrutturazione in famiglia, senza che la Bce venga a curiosare. Di qui le pressioni politiche di Berlino per fare in modo che all’interno dell’Unione bancaria l’attività di controllo della Bce fosse limitata alle banche più grandi. Il fatto è che il sistema tedesco si fonda sulla persistenza del modello della banca universale, sulla tradizionale prossimità tra banche e imprese, che si traduce in una relazione molto stretta tra impresa e banca di riferimento, la Hausbank, mentre si è molto ridimensionato l’intervento delle stesse banche nel capitale delle imprese. Ma pesa soprattutto lo stretto e perverso legame tra gli istituti di piccole e medie dimensioni e il sistema politico.
9 Luglio 2015
il manifesto, 8 Luglio 2015