Roma. Magari il totem dell’intangibilità dell’articolo 2 non sarà abbattuto, ma l’accordo sulla riforma costituzionale appare a portata di mano. Da mesi la sinistra del Pd si sgola per chiedere che il potere di eleggere i senatori del futuro torni agli elettori, ipotesi che il governo aveva tassativamente escluso. Ma il clima nel partito è cambiato e un’intesa si va profilando.
«Discutiamo nel merito senza pregiudizi» si fa sapere da Palazzo Chigi. Il vicesegretario Lorenzo Guerini conferma l’obiettivo di approvare la riforma «nei tempi che ci siamo dati». Ma se il governo, con Maria Elena Boschi, spinge perché si chiuda entro l’8 agosto, tra i «dem» si fa largo il partito della prudenza. E chissà se è vero, come sospettano di dissidenti del Pd, che «Renzi procede con cautela perché spera che entrino i voti di Forza Italia o almeno quelli di Verdini».
I pontieri intanto lavorano sodo, con la speranza di chiudere un accordo nel Pd. «A me sembra che le posizioni siano vicine e che ci sia l’intenzione di tutti di arrivare alla riforma, perché serve all’Italia» conferma il momento positivo il vicepresidente del gruppo, Giorgio Tonini. E Maurizio Martina, che guida l’area di «Sinistra è cambiamento», si schiera con i mediatori: «È importante che il Pd avanzi unitariamente su una riforma decisiva come il superamento del bicameralismo perfetto». Il ministro dell’Agricoltura ritiene ci siano le condizioni per «comporre un nuovo punto di equilibrio e di unità». Al Pirellone di Milano, dove Martina ha riunito i suoi, si è fatto vedere anche il ministro Andrea Orlando. Segno che la minoranza dialogante nata dalla rottura con Roberto Speranza è sempre più vicina a quella dei «Giovani turchi» di Orfini, tanto che si comincia a parlare di fusione. Il nodo politico resta l’elezione diretta. Si era pensato di introdurla con una legge ordinaria, ma la soluzione è ritenuta troppo debole dalla sinistra. Miguel Gotor, Vannino Chiti e gli altri firmatari del «Documento dei 25» insistono perché venga modificato l’articolo 2. «Non vogliamo pastrocchi — ribadisce Gotor —. Vogliamo l’elezione diretta. Con l’Italicum hai una Camera di nominati e non puoi avere anche un Senato di secondo grado in cui, nel chiuso delle stanze, i consiglieri regionali si spartiscono le cariche e chi ha bisogno dell’immunità diventa senatore». La decisione spetta a Pietro Grasso. E Gotor, che pure non vuole «tirarlo per la giacchetta», insiste nel dire che un «favorevole clima politico» faciliterebbe la scelta del presidente. Il bersaniano contesta l’interpretazione secondo cui cambiare l’articolo 2 non sia possibile, perché essendo rimasto identico nel passaggio tra Senato e Camera toccherebbe azzerare tutto e ripartire da capo: «Identico non è. Anche se il cambiamento riguarda due preposizioni, “nei e dai”, quel cavillo è un cavallo di Troia lasciato lì apposta».
La presidente Finocchiaro teme invece che forzare i regolamenti possa aprire il «vaso di Pandora» delle richieste di modifica e lo farà capire martedì, nella relazione in commissione. Come uscirne, allora? L’intesa a cui si lavora prevede che l’elezione diretta possa essere introdotta nel passaggio della legge in cui si stabiliscono le competenze dei nuovi senatori: «Le leggi elettorali regionali prevedono forme di elezione diretta dei consiglieri che faranno anche i senatori…». Dopodiché toccherebbe alle Regioni decidere se serva o meno un listino a parte.
Il Corriere della sera, 4 luglio 2015