Dopo settant’anni, le celebrazioni della Liberazione si rivolgono ormai a chi non ha vissuto i fatti o, almeno, i tempi della Resistenza. Quella generazione è quasi completamente scomparsa. Per le nuove generazioni e, soprattutto, per quella di chi oggi è ragazzo, non si tratta di rivivere e rievocare vicende partecipate personalmente. Chi può dire, allora davvero, se non le ha vissute, quali furono le alternative di fronte alle quali si trovarono gli uomini e le donne di allora, i terrori, gli incubi, i pericoli, i dubbi che gravavano sulle coscienze, ma anche i progetti, gli ideali, le speranze che mossero i ribelli al fascismo e al nazismo?
Tempo di scelte tragiche alle quali, per nostra fortuna, da allora non siamo più stati chiamati. Dobbiamo anche oggi prendere posizione, non con le armi ma con la consapevolezza di ciò che allora divise il nostro Paese in una guerra che fu anche una guerra tra Italiani, una guerra civile, tra tutte le guerre la più crudele. E dobbiamo farlo con umiltà, perché noi non siamo stati messi alla prova e non possiamo dire con certezza da quale parte ci saremmo trovati.
Quale fosse la posta in gioco, possiamo comprendere nel modo più vivo attraverso le Lettere dei condannati a morte della Resistenza: confessioni scritte nella totale sincerità di chi non si aspetta più nulla per sé, dà testimonianza del significato della scelta che lo sta portando a morte e non sa neppure se le sue parole sarebbero uscite dalla cella di detenzione per arrivare alle mogli, ai figli , ai compagni e alle compagne, agli amici. Lettere in cui la coscienza è lacerata tra due fedeltà: l’una verso la loro idea d’Italia; l’altra verso i familiari e le persone care, alle quali si chiede ripetutamente perdono per avere anteposto all’amore verso di loro, l’amor di Patria (parola allora ricorrente).
Scelte impervie, secondo un certo modo di pensare estranee allo spirito comune di noi italiani. La Resistenza, s’è detto, sarebbe estranea allo spirito profondo del popolo italiano, spirito tutt’altro che “resistenziale”, ma piuttosto “accomodante”. Per quello che si potrebbe chiamare “revisionismo etico”, il carattere autentico della nostra identità nazionale sarebbe rappresentato da quella parte più numerosa del popolo italiano, aperta a qualunque compromesso, pur di assicurarsi una vita tranquilla, al riparo dai pericoli.
Così ragionando, si finisce per considerare il fascismo, l’alleanza con la Germania nazista come una semplice parentesi nella nostra storia, e così pure l’antifascismo, che ne sarebbe stata la reazione senza autentiche e profonde radici nel nostro costume: l’uno e l’altra vicende da racchiudere in una memoria che dimentichi l’asprezza del conflitto valorizzando chi non stava né dall’una né dall’altra parte, la zona grigia accomodante. Il popolo italiano rifugge dagli estremismi, dice questa forma di memoria che si vorrebbe condivisa: nel peccato di estremismo sarebbero caduti tanto i fascisti quanto gli antifascisti. Questa interpretazione dei fatti del biennio 1943/1945 porta a una conclusione: avevano entrambi torto, si equivalevano dunque. Le crudeltà, le vendette personali, gli abusi che la guerra civile – come tutte le guerre civili – portò con sé, di cui gli storici cercano di costruire un memoriale di umana comprensione, sarebbero l’argomento a favore degli “attendisti”, della “zona grigia” di coloro che non si schierarono né con gli uni, né con gli altri. Costoro sarebbero stati i veri interpreti dell’animo profondo degli italiani, un popolo di moderati. Dimenticare la Resistenza, dunque, e con essa, il fascismo: legarli insieme e relegarli in una nota a piè di pagina nei libri di storia.
È questo ciò su cui pensiamo che una storia comune possa essere costruita? Il conformismo di chi sta a guardare quando si combatte per beni supremi, come la libertà, l’indipendenza, la dignità degli esseri umani, la pace? Nell’Antichità, quando un conflitto di questo genere, la stasis, si verificava e nessun’altra soluzione sembrava possibile, l’impegno personale e diretto – o di qua o di là –si considerava un obbligo civile. Si voleva evitare che si stesse alla finestra, come fanno gli opportunisti, per poi approfittare del sacrificio di chi si è messo in gioco e ha rischiato la vita per un ideale. Di tutte le posizioni, la meno degna è proprio questa: assumere l’opportunismo come virtù; credere di superare il conflitto che settant’anni fa ha diviso l’Italia in nome d’una debolezza. Facciamo attenzione a che l’appello giusto e ripetuto, soprattutto in questi giorni, alla “memoria condivisa” e alla riconciliazione, non finisca per esaltare l’opportunismo come virtù politica.
In ogni caso, l’equidistanza non risponde alla domanda cruciale: che cosa sarebbe successo se avessero vinto i fascisti e i loro alleati nazisti? Guardiamo ai fatti e ricordiamo i programmi. La Germania vincitrice avrebbe istituito il “Reich millenario”. Avrebbe distrutto la civiltà liberale e cristiana, avrebbe instaurato il dominio della “razza ariana”, sterminando i “non integrabili”, gli ebrei, i rom, gli omosessuali, gli oppositori politici irriducibili; avrebbe sottomesso le “razze inferiori”, gli slavi e anche i popoli latini dal sangue impuro per i tanti mescolamenti o “contaminazioni” prodottesi nei secoli. Li avrebbe costretti a servire l’impero ariano. Oggi si dice che all’Italia sarebbe stato riconosciuto un suo degno posto nel nuovo ordine mondiale: la mano libera nella colonizzazione del continente africano. Che bella prospettiva: colonialismo su larga scala. Comunque, la guida del nuovo mondo sarebbe stata la Germania, con la sua ideologia, la Wehrmacht, le SS, la Gestapo, i campi di concentramento e di sterminio. L’Italia e l’Europa tutta sarebbero state sotto il giogo d’un regime di pretesi super-uomini che avevano dato prova di sé scatenando guerre d’espansione e pulizie etniche, provocando milioni di morti, diffondendo il terrore nella vita quotidiana, promuovendo mostruosi esperimenti e campagne eugenetiche. Non sono esagerazioni: questo era l’alleato, questi i super-uomini che i nostri fascisti goffamente volevano imitare.
Allora, alla domanda: che cosa sarebbe successo, non possiamo dare una risposta equidistante. Una parte stava con queste barbarie, l’altra contro. Occorre ricordare e rendere onore e gratitudine a chi ha scelto la parte secondo umanità, giustizia e libertà, la parte che ci consente di essere qui a discutere liberamente del nostro passato e del nostro futuro.
Altra cosa è riconoscere che chi stava dalla parte sbagliata non era necessariamente un criminale, un fanatico. L’indottrinamento al quale il fascismo aveva sottoposto gli Italiani faceva la sua parte; l’illusione di stare con il governo legittimo, anche. Il passaggio con i partigiani e con la resistenza, cioè con quelli che i proclami della Wehrmacht chiamavano banditi, “Banditen”, si scontrava in non pochi con un senso del dovere nei confronti d’un concetto, sia pure corrotto, di Patria. Non si trattava soltanto d’adesione a ideologie funeste o di timore per le ritorsioni e per la possibile deportazione nei campi di lavoro in Germania. Per questo, ancora una volta, sospendiamo il giudizio.
C’è poi una seconda domanda. E se la guerra si fosse conclusa esclusivamente con la conquista da parte degli eserciti degli Alleati? Se le autorità militari anglo-americane non avessero avuto a che fare con il Corpo Volontari della Libertà, con i Comitati di Liberazione Nazionale e con i rinati partiti politici che ai Comitati avevano dato vita?
La sconfitta del III Reich e della repubblica di Salò non fu certo determinata soltanto, e nemmeno prevalentemente, dalle forze della resistenza interna. Ma, se questa non ci fosse stata, la parola adatta a descrivere la situazione del nostro Paese sarebbe “debellatio”, annichilimento. Gli Alleati trovarono un popolo che lottava per la sua identità, oltre che per il proprio onore e il proprio futuro. Gli storici discutono delle dimensioni della Resistenza, tra resistenza attiva con le armi in pugno, resistenza passiva, aiuto e sostegno diffuso, fiancheggiatori più o meno esposti. Tanto meno numerosi, tanto più merito. In ogni caso, la Resistenza in Italia, a differenza di ciò che accadde in Germania, fu ciò che permise al nostro Paese di salvaguardare la propria autonomia, di sedere nel contesto internazionale tra le nazioni libere e di ricominciare a prendere nelle nostre mani l’opera della ricostruzione. Il primo passo fu l’Assemblea Costituente, il primo parlamento democratico, eletto a suffragio universale, del nostro Paese; il primo frutto fu la Costituzione.
Si può dire che la nostra sia una costituzione antifascista? Che oggi abbia un senso definirla così, quando il fascismo storico è stato sconfitto e, almeno per ora, un altro non sembra riproporsi nelle forme di allora? Consideriamo che esiste un fascismo perenne, di cui quello storico è stato solo una manifestazione. Facciamo questo esperimento. Amor di Patria era espressione sulla bocca dei fascisti come degli antifascisti. Ma, che cosa era per gli uni e per gli altri?
Per i fascisti, si traduceva in “italianità” e nazionalismo, in culto della forza e della guerra, nella visione gerarchica della società, in amore per la “bella morte”, in retorica dell’onore virile. Tutto questo stava nell’amor di Patria. Per gli antifascisti, era esattamente l’opposto: al nazionalismo si contrapponeva la fratellanza tra i popoli; all’esaltazione della forza, il dovere dello studio e l’impegno nel lavoro; al culto della guerra, l’aspirazione alla pace; alla gerarchia, l’uguaglianza; alla seduzione della bella morte, l’aspirazione alla vita; all’onore virile, la libertà per tutti.
Tutto questo troviamo trascritto nella Costituzione, se la sappiamo leggere in controluce rispetto a ciò ch’essa ha voluto negare e a ciò che, al contrario, ha voluto affermare. In questo senso, possiamo, anzi dobbiamo tranquillamente dire che la nostra è una costituzione scritta per contrastare il fascismo perenne. Quando ci si chiede in che cosa consiste lo spirito della Liberazione, lo vediamo nelle immagini di popolo, uomini e donne, giovani e anziani, che nella giornata del 25 luglio scesero nelle strade e nelle piazze a festeggiare i partigiani che sfilavano, a manifestare festanti e felici la volontà di riprendere il futuro nelle proprie mani. Le immagini che ci hanno tramandato quel momento colpiscono ancora. Anzi colpiscono particolarmente in un momento com’è il nostro, in cui tanto bisogno avremmo di attingere a quelle energie, a quella fiducia, a quel bisogno di libertà, di giustizia e di pace. La nostra Costituzione – ripeto: se la sappiamo leggere – è come un serbatoio che racchiude quelle energie, alle quali possiamo attingere nei momenti di difficoltà.
Non è dall’alto dei poteri costituiti, da soli, che possiamo pensare di ricevere la salvezza. Sono i germogli che nascono nella società, spesso tra i più umili, dove si trova talora una consapevolezza che manca altrove. Ho ricordato all’inizio le Lettere dei condannati a morte della Resistenza. Le voglio riprendere alla fine, citandone due.
Pietro Benedetti, un artigiano fucilato il 29 aprile 1944, scrive ai figli: “Amatevi l’un l’altro, miei cari, amate vostra madre e fate in modo che il vostro amore compensi la mia mancanza. Amate lo studio e il lavoro. Una vita onesta è il migliore ornamento di chi vive. Dell’amore per l’umanità fate una religione e siate sempre solleciti verso il bisogno e le sofferenze dei vostri simili. Amate la libertà e ricordate che questo bene deve essere pagato con continui sacrifici e qualche volta con la vita. Una vita in schiavitù è meglio non viverla. Amate la madrepatria, ma ricordate che la patria vera è il mondo e, ovunque vi sono vostri simili, quelli sono i vostri fratelli”.
Più di tutte, commoventi sono le parole di Paola Garelli, pettinatrice di Mondovì, fucilata il 1° novembre 1944, che scrive alla sua piccola bimba: “la tua mamma se ne va pensandoti e amandoti, mia creatura adorata, sii buona, studia e ubbidisci sempre gli zii che t’allevano, amali come fossi io. Io sono tranquilla. Tu devi dire a tutti i nostri cari parenti, nonna e gli altri, che mi perdonino il dolore che do loro. Non devi piangere né vergognarti per me. Quando sarai grande capirai meglio. Ti chiedo una cosa sola: studia, io ti proteggerò dal cielo […] la tua infelice mamma”.
Che distanza! Che commozione e, forse anche, che sferzata avvertiamo! Soprattutto: “quando sarai grande capirai”. Ecco il compito: aiutare a capire e così aiutarci a diventare un popolo adulto.