Gustavo Zagrebelsky. “È l’’età dell’’incertezza. Siamo come gli ebrei davanti al mar Rosso”

16 Marzo 2015

«Ciò che non siamo ciò che non vogliamo», scriveva Montale. Ma qui non siamo in una sfera poetica, siamo nella più prosaica delle realtà. «Sappiamo ciò che non siamo più, non sappiamo ciò che saremo, cosa stiamo diventando», dice Gustavo Zagrebelsky, presidente di Biennale Democrazia, per spiegare il titolo della nuova edizione che si chiamerà «Passaggi».
Professore, «Passaggi» fa venire in mente i passages di Walter Benjamin, il flâneurche attraversa Parigi – prototipo della città democratica, dunque in senso lato degli Stati – scoprendone aspetti nascosti, anfratti, possibilità. Era questo il riferimento a cui

«Ciò che non siamo ciò che non vogliamo», scriveva Montale. Ma qui non siamo in una sfera poetica, siamo nella più prosaica delle realtà. «Sappiamo ciò che non siamo più, non sappiamo ciò che saremo, cosa stiamo diventando», dice Gustavo Zagrebelsky, presidente di Biennale Democrazia, per spiegare il titolo della nuova edizione che si chiamerà «Passaggi».
Professore, «Passaggi» fa venire in mente i passages di Walter Benjamin, il flâneurche attraversa Parigi – prototipo della città democratica, dunque in senso lato degli Stati – scoprendone aspetti nascosti, anfratti, possibilità. Era questo il riferimento a cui pensavate per la Biennale?
«Ci eravamo posti il problema di questa assonanza, ma poi ci siamo chiesti: a quanti verrà in mente? In realtà il termine “passaggi” allude a un tempo di incertezza, il passaggio tipico è quello del mar Rosso da parte degli ebrei. Noi, come gli ebrei allora, non sappiamo a cosa andiamo incontro; abbiamo la sensazione di non esser più quello che eravamo prima, ma non sappiamo cosa troveremo. In questa traversata, come gli ebrei nel mar Rosso, rimpiangeremo le cipolle del Faraone. Ma dovremo andare avanti».
Avanti senza sapere dove, o il dove s’’intravede, per esempio nel politico? Nietzsche scriveva «la navicella ha rotto gli ormeggi, non ti prenda nostalgia della terra».
«Ormai siamo post, ma non sappiamo cosa siamo. Il post più tipico è il post-democrazia. L’’Italia è in un regime post-democratico, in cui non solo non sappiamo il futuro, ma non sappiamo neanche bene il presente. Per questo sarà la Biennale delle inquietudini, dell’’incertezza, e magari della seminagione di qualche prospettiva».
Queste inquietudini riguardano la politica, innanzitutto?
«Uno degli orizzonti è sicuramente la politica. Che fine sta facendo la politica in un’’epoca in cui gli Stati nazionali, nei quali la politica si è condensata, hanno perso gran parte della sovranità? Le grandi scelte “politiche” di un tempo sono diventate ormai scelte meramente esecutive. E per “esecutive” intendo scelte dell’’esecutivo. Io faccio una distinzione tra esecutivo, che esegue, e governo, che invece dovrebbe dare direttive politiche, governare, appunto. Cultura esecutiva significa che tutti i governi sono sotto la legge della necessità, l’’equilibrio finanziario, costretti a eseguire direttive distanti dalla politica».
Gli altri passaggi quali sono?
«Le trasformazioni geopolitiche. L’’Europa ha perso la sua funzione centrale, oggi è un tassello, impotente. Per questo avremo un’’attenzione particolare non solo per le istituzioni europee, ma per la cultura, l’’influenza, la posizione. Ne parlerà Claudio Magris in una lezione magistrale. Poi quei passaggi che sono le migrazioni, incontro, scontro. E i mutamenti economici, il passaggio dall’’economia reale a quella finanziaria. Infine, a me stanno molto a cuore i passaggi generazionali».
Qui parliamo anche dell’’Italia di Renzi, il «rottamatore» vero o presunto. Che si muove nel quadro del tramonto degli Stati, della fine del potere, la crisi della democrazia ovunque. Lei è assai critico con Renzi.
«Penso che con la fine delle ideologie si è cancellato ogni discorso delle idee, esiste solo un discorso tecnico, la politica è diventata pura riparazione di guasti sociali, e lo Stato – da entità giuridica – si è trasformato in un concetto quasi da diritto commerciale, qualcosa che può “fallire”, il che è un totale controsenso».
Alcuni Paesi hanno più anticorpi nella società, nei corpi intermedi. L’’Italia no, non crede?
«In Francia, per dire, dopo Charlie Hebdo si è aperto un grande dibattito – di cui parlerà Carlo Ossola -, è venuta fuori la tradition républicaine. In Italia tutto questo non c’’è stato. E se cittadinanza e forze intermedie vengono a mancare, la politica diventa pura decisione dall’’alto, chiusura oligarchica».
Lei parlerebbe di «democratura», per l’Italia e per Renzi?
«Guardi, nella teoria parliamo da anni di questo termine: indica semplicemente una democrazia malata. Io stesso l’’ho usato più volte. Ma quello che vedo in atto è soprattutto una chiusura oligarchica. Ernest Renan diceva che la nazione è un plebiscito di ogni giorno, oggi potremmo dire che gli Stati sono un plebiscito dei mercati ogni giorno».
Oggi tutta la retorica è lo scontro giovani/vecchi, ma non è secondo lei solo una narrazione che occulta la realtà?
«Un tempo le età erano tre, giovinezza, maturità, vecchiaia. Ora è scomparsa la maturità, tutti ragionano in modo binario, giovani/vecchi. Oggi in Italia siamo a un passaggio in cui c’’è una generazione nuova, Renzi l’’ha chiamata “generazione Telemaco”. Ma in cos’’è che siete nuovi, chiederei loro, cosa vi dà identità? Dicono: innovazione, velocità, concorrenzialità. Prenda il tema del lavoro: tramonta quella che Bobbio, Rodotà, io stesso chiamavamo l’’età dei diritti. La generazione Telemaco vuole più velocità e più concorrenza, e per far questo deve tagliare i diritti. I più danneggiati saranno i diritti degli anziani, le pensioni, ma in generale i diritti di tutti coloro che non producono. Una volta gli improduttivi venivano eliminati fisicamente…».
A Sparta, a Tebe… E oggi?
«Anche nelle tribù nordamericane: gli anziani venivano fatti addormentare in un termitaio e divorati. Oggi ci stiamo trasformando in una società in cui i diritti li hanno solo i produttori. Entriamo nell’’età dei senza diritti».

La Stampa, 16 marzo 2015

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