
I fascisti, i nazisti e i comunisti hanno spesso dato l’etichetta di democrazia, anzi della “reale”, “vera”, “piena”, “sostanziale”, “più onesta” democrazia ai regimi politici d’Italia, della Germania e della Russia attuali [siamo nel 1940], perché questi regimi professano anch’essi di confortare ed elevare le classi inferiori, dopo averle private di quegli stessi diritti politici senza i quali non è possibile concepire il “governo dei popoli”».
Invito al colloquio è il titolo del primo saggio di Politica e cultura ( Einaudi), un’espressione che riassume l’intera attività politico-intellettuale di Bobbio. Ma, il colloquio, affinché non si svolga in acque torbide, deve sapere qual è l’oggetto e che cosa, per non intorbidirle, ne deve stare fuori. Per questo, una definizione è necessaria, ma una definizione troppo pretenziosa non aprirebbe, bensì chiuderebbe il confronto. Ecco l’attaccamento di Bobbio alle “definizioni minime”. Sono minime le sue definizioni di socialismo, liberalismo, destra e sinistra, ad esempio. Ed è minima la definizione di democrazia; potremmo anzi dire minimissima: a) tutti devono poter partecipare, direttamente o indirettamente, alle decisioni collettive; b) le decisioni collettive devono essere prese a maggioranza. Tutto qui. Oltre che minima, questa definizione è anche solo formale: si riferisce al “chi” e al “come”, ma non al “che cosa”. Riguarda soltanto — come si usa dire per analogia — le “regole del gioco”.
In uno scambio epistolare con Pietro Ingrao sul tema della democrazia e delle riforme costituzionali che ebbe luogo tra il novembre 1985 e il gennaio 1986 (P. Ingrao , Crisi e riforma del Parlamento , Ediesse), troviamo una dimostrazione di ciò a cui serve il “concetto minimo”. Serve, da una parte, a includere, e dall’altra, a escludere e, così facendo, a chiarire. I punti del contrasto riguardano quello che allora era il progetto d’Ingrao, descritto in un libro dal titolo significativo: Masse e potere ( Editori Riuniti, 1977) che allora ebbe grande successo e che ora — mi pare — è dimenticato: la democrazia di massa o di base, unitaria e capace di egemonia. Ma gli argomenti chiamati in causa possono riguardare, in generale, tutte quelle che Bobbio avrebbe considerato degenerazioni della democrazia, alla stregua della sua definizione minima, come ad esempio, la “democrazia dell’applauso” di cui egli parla nel 1984, a proposito della conquista del Partito socialista da parte del suo segretario di allora), o la democrazia dell’investitura plebiscitaria e populista dei tempi più recenti.
Si prenda la “massa”. Bobbio chiede «che cosa si possa intendere mai per democrazia di massa di diverso da quel che s’intende per democrazia fondata sul suffragio universale»; che cosa si dica di più e di meglio «rispetto a quel che s’intende quando si parla di un sistema politico in cui tutti i cittadini maggiorenni hanno il diritto di voto »? Se non s’intende nulla di diverso, la democrazia di massa è perfettamente compatibile, anzi è la definizione formale della democrazia nella quale i cittadini possono riunirsi e associarsi per svolgere attività politica. Ma non è tutto. Introdurre le masse al poa sto dei cittadini non lascia capire esattamente di che cosa si stia parlando e nella zona grigia dell’incertezza entrano atteggiamenti emotivi che difficilmente diremmo democratici. Ingrao usa espressioni come «irruzione delle masse nello Stato», «un fiume tumultuoso che rompe gli argini e spazza e travolge ciò che trova nel suo corso», all’azione diretta della folla. Massa può alludere a un corpo collettivo amorfo e indifferenziato, mentre il soggetto principe di un regime democratico è il singolo individuo. «In democrazia non ci possono essere masse: ci sono o individui, oppure associazioni volontarie di individui, come i sindacati e i partiti». In ogni caso, in democrazia gli individui pensano e vogliono a partire dalla propria autonomia morale. Sanno affrancarsi dalla “psicologia della massa” sulla quale si appoggiano e si sono appoggiati tutti i demagoghi d’ogni tempo e luogo.
E l’unità? Che senso ha l’appello all’unità che il Partito comunista di quegli anni insistentemente faceva proprio: compromesso storico, alternativa democratica, oggi Pd o, addirittura, Partito della Nazione? La democrazia è un regime d’insieme e «non può essere chiamato democratico [si può aggiungere: nazionale] in una delle sue parti se non costo di creare una notevole confusione. Se una di queste parti viene chiamata “democratica” [o nazionale] è segno che la si considera una parte che tende a identificarsi col tutto». L’unità sconfina nella unicità. La democrazia richiede “distinzioni”, cioè pluralismo. «Senza pluralismo non è possibile alcuna forma di governo democratico e nessun governo democratico può permettersi di ridurre, limitare, comprimere il pluralismo senza trasformarsi nel suo contrario». La sintesi è espressa da Bobbio in termini assai forti, perfino scandalosi: «La discordia è il sale della democrazia, o più precisamente della dottrina liberale che sta alla base della democrazia moderna (per distinguerla dalla democrazia degli antichi). Resta sempre a fondamento del pensiero liberale e democratico moderno il famoso detto di Kant: “L’uomo vuole la concordia, ma la natura sa meglio di lui ciò che è buono per la sua specie: essa vuole la discordia”».
E l’egemonia? Qui Bobbio confessa che si tratta d’un concetto che gli è “meno familiare”, ma ciò non gli impedisce di porre una domanda analoga a quella posta a proposito della “massa”: «Mi piacerebbe che qualcuno mi spiegasse in che cosa consista l’egemonia in un sistema democratico se non nella capacità di ottenere il maggior numero di voti […] Se qualcuno mi sa dire che cosa significhi in democrazia, entro il sistema di certe regole del gioco, conquistare l’egemonia, oltre al conquistare il consenso degli elettori, lo prego di farsi avanti».
Insomma: egemonia, massa, unità non appartengono al sistema concettuale del pensiero liberal-democratico e appartengono invece alla tradizione del pensiero marxista. Tutto si tiene in una concezione della democrazia che contraddice l’universo politico che, in fin dei conti, era anche quello di Ingrao de Partito comunista. La forza elementare delle argomentazioni di Bobbio porta, alla fine, a una certa convergenza. Dice Ingrao e certo Bobbio avrebbe concordato (cito dalla lettera che conclude lo scambio): «”Democrazia minima”: dici tu. Ma anche quel livello minimo (eguaglianza formale nella libertà di voto) può realizzarsi senza chiamare in causa tutta una serie di condizioni, che riguardano libertà di voto, modalità di voto, contenuti del voto, conseguenze del voto, attuazione del voto? L’atto è quello. Ma il quadro — sociale, politico, statuale — entro cui esso si svolge è decisivo, perché esso possa essere non dico esaustivo (?), ma significante. Per “minima” che sia la democrazia, quel voto ha bisogno di un prima e di un poi che gli diano verità. Altrimenti la forma dell’uguaglianza rivela il suo limite, la sua debolezza di contenuto». Questo dice Ingrao. Ma, chi potrebbe dissentire? Chiunque s’ispiri a una concezione liberale della democrazia — Bobbio in primis — non potrebbe non essere d’accordo.
Non è questa la sede per distribuire le ragioni e torti, anche se a me pare, sommessamente, che sia stato Bobbio a condurre Ingrao sulla sua strada, e non viceversa. In ogni caso, la definizione minima del primo si è dimostrata feconda di dialogo con il secondo.
Ora viviamo in una pseudo-democrazia, in cui i parlamentari e i partiti si prendono totalmente il potere appena li abbiamo eletti in Parlamento. Da quel momento il cittadino subisce qualsiasi angheria senza potersi difendere. Ora l’art. 71 recita:
” L’iniziativa delle leggi appartiene al Governo, a ciascun membro delle Camere ed agli organi ed enti ai quali sia conferita da legge costituzionale. Il Popolo esercita l’iniziativa delle leggi, mediante la proposta, da parte di almeno cinquantamila elettori, di un progetto redatto in articoli.”
Finora l’art. 71 ti permette di presentare una proposta di legge, sostenuta da 50.000 firme, ma non garantisce che il Parlamento la prenda in considerazione e tanto meno di votarla, e se votata può respingerla anche se è la legge migliore del mondo.
Per dare certezza le REGOLE che propongo sono:
1) Leggi di iniziativa popolare:
Bisogna AGGIUNGERE questa frase all’art. 71 della Costituzione:
“La proposta, sostenuta da 60.000 firme, deve essere discussa obbligatoriamente dal Parlamento entro 6 mesi dalla presentazione. Se il Parlamento non approva la proposta di legge, deve sottoporla obbligatoriamente a referendum entro 12 mesi dalla presentazione. ” Il presidente della Repubblica controlla che sia rispettata dal Parlamento la Costituzione, altrimenti è obbligato a sciogliere il Parlamento, entro 30 giorni, nel caso questo articolo non sia rispettato.
Bobbio: “La discordia è il sale della democrazia, o più precisamente della
………..dottrina liberale che sta alla base della democrazia moderna ( per
………..distinguerla dalla democrazia degli antichi )…….”
…Kant: “L’uomo vuole la concordia, ma la natura sa meglio di lui ciò che
……….è buono per la sua specie: essa vuole la discordia”………………………….
Dottor Zagrebelsky,
non è che per caso Bobbio e Kant avessero entrambi in mente la visione di una Democrazia FALSA quando usarono la parola “discordia”?
In una Democrazia VERA esiste una differenza di vedute, tutte mirate allo stesso obiettivo: il conseguimento del BENE COMUNE. E questa divergenza di vedute si ricompone civilmente nella visione maggioritaria. Questo avviene in una Democrazia fatta da Cittadini. Probabilmente Bobbio e Kant si riferivano ad una Democrazia costituita da individui mai assurti a Cittadinanza e, quindi, incapaci di costituire la Democrazia VERA.
Osserva bene Kant nel dire che “l’uomo vuole la concordia”, ma conclude male nel dire che “la natura vuole la discordia”. Da filosofo, Kant avrebbe dovuto osservare che la concordia è un assoluto da cui l”Uomo si è distaccato e a cui – inevitabilmente ed inesorabilmente – vuole, più o meno coscientemente, ritornare. Come potrebbe mai la Natura – Creatrice dell’Armonia Cosmica – volere che l”uomo rimanesse nella Disarmonia, ovverosia nella discordia?
Ho la distinta impressione che entrambi – Bobbio e Kant – hanno mancato di prendere coscienza dell’assenza dell’elemento cruciale della Democrazia VERA: il CITTADINO. E la ragione per cui entrambi sono andati a parare a conclusioni a dir poco confuse, è appunto quella di aver voluto parlare di costruire un palazzo senza mattoni.
Peggio: credendo mattoni quelli che mattoni non erano!
Le considerazioni del prof. Zagrebelsky inducono a qualche riflessione su alcuni concetti del pensiero politico moderno, assunti a fondamento del “dover essere” della comunità statale, ma che a causa della insufficiente elaborazione dottrinale presentano caratteri di problematicità se non addirittura paradossalità.
1.- A partire dal concetto di “democrazia”, di cui Norberto Bobbio aveva posto in evidenza almeno quattro aspetti paradossali, tra i quali il più evidente è che è impensabile parlare di governo del popolo, soprattutto se si fa riferimento all’ipotesi di democrazia diretta, con riferimento a comunità statali di grandi dimensioni e con funzioni sempre più complesse da richiedere una gigantesca organizzazione tecnico burocratica dotata di adeguate specifiche competenze nei vari settori. Da qui il paradosso che nello stato moderno il termine “democrazia” è di fatto riferito non al governo del popolo, sia pure in senso rappresentativo, ma al governo di una burocrazia elettiva di incompetenti che per operare devono necessariamente affidarsi agli apparati burocratici di sistema e quindi di potere.
2.- Anche il concetto di “pluralismo” viene ad assumere aspetti paradossali.
Viviamo, infatti, nella perenne contraddizione di voler conciliare il pluralismo delle idee e in senso politico il pluralismo di scelta sul “dover essere” degli individui e della società con le esigenze di uniformità sentimentale e comportamentale alle regole (sociali, etiche, giuridiche) necessarie per assicurare un ordinato funzionamento del sistema sociale.
Il pluralismo è un concetto che esclude a priori ogni ipotesi di pensiero unico, inteso come verità inconfutabile, da valere per tutti.
Ma comporta come conseguenza inevitabile il relativismo di ogni pensiero, di ogni concetto, e in senso più vasto, il relativismo degli stessi principi e valori fondamentali.
Dal relativismo dei valori consegue poi il relativismo di ogni ipotesi ideologica, che abbia la pretesa di essere condivisa; il relativismo di ogni ipotesi di “dover essere” della società.
Da qui una condizione culturale di inevitabile ambiguità e conflittualità permanente.
E così, al disagio esistenziale dovuto alle precarie condizioni esterne, si aggiunge il disagio di un conflitto permanente culturale nel contesto sociale.
3.- Il concetto di “sovranità popolare”, assunto a fondamento dell’assetto costituzionale democratico, di fatto è una mera enunciazione di principio.
È ormai una prassi istituzionale che i rappresentanti del popolo eletti si proclamino paradossalmente e irresponsabilmente elettivamente sovrani senza limitazioni di sorta, arrogandosi il potere di modificare la costituzione a loro piacimento.
È paradossale che sia la stessa costituzione, dopo aver riconosciuto la sovranità popolare in capo ai gruppi sociali portatori di interessi particolari, a negare questa sovranità disponendo che i membri del parlamento rappresentano gli interessi della nazione, senza vincolo di mandato.
4.- Anche il concetto di “legalità” presenta aspetti paradossali.
In particolare con l’accoglimento nella cultura generale di una concezione relativistica legata al concetto di legge ingiusta.
Il concetto di legge ingiusta, che rende giustificabile almeno sul piano morale la “disobbedienza civile”, esiste dalla notte dei tempi. Al di là della disobbedienza civile di Eva alla legge divina ritenuta da lei evidentemente ingiusta, che non rientra nella questione di legalità formale, si richiama la questione di legge ingiusta sollevata da Antigone.
E da allora si continua a parlare di leggi ingiuste. Fino al paradosso di vedere costituzionalizzato il concetto di legge ingiusta da sottoporre al giudizio di incostituzionalità.
5.- E ancora paradossale è il concetto di “libertà”.
La libertà di pensiero, di espressione, di comportamento non dovrebbe essere regolata e/o limitata normativamente, ma dovrebbe trovare il suo limite nell’autodisciplina dei cittadini.
Ma se i cittadini mostrano di non possedere una educazione culturale, sentimentale e comportamentale che ponga al primo posto l’osservanza dello spirito di servizio nel contesto sociale, e fintanto che si continua a confondere la libertà con l’anarchia, si rende necessario stabilire con legge le regole di comportamento.
Una volta poste le regole di comportamento il concetto di libertà è privo di contenuto.