Funziona così. Il presidente del Consiglio convoca (di buon mattino) la presidente della commissione affari costituzionali, che in quanto relatrice ha in mano il progetto di riforma della Costituzione, e con lei il capogruppo del Pd che si suppone o si spera controlli le intenzioni di voto di tutti i suoi senatori. La riunione serve a trovare un accordo, un compromesso sulla riforma del bicameralismo. È una riunione in famiglia. C’è anche la ministra Boschi, sono tutti di un solo partito (il Pd) ma hanno sul tavolo la legge che modifica 44 articoli, quasi un terzo, della Costituzione.
Il presidente del Consiglio è quello che ha detto che le riforme si devono fare con tutti. L’ha detto per difendere il suo patto obbligato con Berlusconi, senza i cui voti non avrebbe potuto imporre né la nuova legge elettorale né questa riforma nemmeno al suo partito. A palazzo Chigi ieri erano in quattro. Il dibattito in commissione affari costituzionali è durato dieci giorni, non dieci mesi, e l’89 percento degli interventi ha bocciato la riforma proposta dal governo. Ma la riforma si deve fare: Matteo Renzi ha minacciato altrimenti che lascerà non la carica ma addirittura la politica.
Senza la riforma ci sarebbe «il suicidio del sistema democratico», come da battagliero parere della teorica minoranza interna al Pd. Renzi, che ha firmato in prima persona il progetto di riforma costituzionale, trasferisce al governo anche il lavoro di mediazione che dovrebbe fare il parlamento. Il suo disegno di legge ha qualcosa di più degli ultimi due tentativi di organica revisione della Carta, il Titolo V del centrosinistra e la Costituzione di Lorenzago del centrodestra: entrambi portavano forte l’impronta del governo dell’epoca ed entrambi sono falliti.
Mai era successo però che il presidente del Consiglio si trasformasse anche in relatore del testo di riforma, seguendo personalmente anche le modifiche. Accettando e respingendo emendamenti. Oggi lo farà davanti all’assemblea del gruppo Pd. La bozza di lavoro finale, il cosiddetto «testo base», partirà dunque dal disegno di legge del governo. Lo firmerà la presidente Anna Finocchiaro, ma conterrà le variazioni che Renzi ha deciso di accogliere. In bella evidenza quelle che erano già previste, ma lasciate al dibattito dei senatori per dare l’impressione di concedere qualcosa.
I 21 senatori di nomina quirinalizia non saranno naturalmente 21 (che vorrebbe dire un forte partito del presidente della Repubblica) ma molti di meno. I senatori del Molise (300mila abitanti) non saranno naturalmente nello stesso numero di quelli della Lombardia (10 milioni di abitanti). Le competenze del nuovo senato saranno allargate, il che farà piacere ai senatori che potranno per esempio occuparsi delle direttive europee, cioè di una materia vastissima. Così sarà più insensato attribuire la funzione legislativa a chi non è eletto per questo, meno netta la differenza tra le due camere. Basta che la riforma si approvi. Non più entro le elezioni europee — «non ci impicchiamo a una data», dice adesso chi quella scadenza ha inventato e imposto fino alla penultima dichiarazione — ma in modo che il presidente del Consiglio possa presentare al mondo un suo successo, qualsiasi cosa ci sia dentro. La grande esibizione di forza nasconde infatti una grande debolezza. Le argomentazioni dei senatori contrari — di tutti i gruppi — hanno già ottenuto un arretramento di Renzi rispetto alle posizioni iniziali. Aveva progettato un senato quasi di soli sindaci, adesso sindaci e rappresentanti di regione si equivalgono, domani accoglierà l’obiezione che gli amministratori comunali non possono anche fare le leggi e ne lascerà una rappresentanza simbolica, per non capitolare del tutto.
Sulla composizione del nuovo senato però deve ancora lavorare. La soluzione che ha in testa, l’elezione dei senatori all’interno dei consigli regionali, lasciando la doppia funzione, è infatti totalmente illogica. L’elezione diretta in contemporanea alle elezioni regionali, ma con una legge proporzionale che in parte può bilanciare le distorsioni dell’Italicum, sarebbe la conclusione più ragionevole una volta accettato il principio che il senato non può essere un «dopolavoro» per il ceto politico locale. L’ostacolo è il «paletto» fissato da Renzi: non vuole senatori diversi dai consiglieri regionali (e sindaci). Perché, sostiene, affidare ai cittadini l’elezione dei rappresentanti in parlamento significa «frenare il cambiamento».
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