Sull’espulsione di Alma Shalabayeva

26 Luglio 2013

L’espulsione di Alma Shalabayeva e di sua figlia Alua, anche a prescindere dalle modalità allarmanti con le quali sarebbe stata pianificata ed eseguita, sembra porsi al di fuori dello stesso quadro di garanzie riconosciute dall’ordinamento italiano.

Alma1. L’espulsione di Alma Shalabayeva e di sua figlia Alua ha aperto molti interrogativi sull’effettivo rispetto, in Italia, delle norme poste a protezione dello straniero che, nel suo Paese, sia esposto al rischio di persecuzione per motivi politici o altro, o a danni gravi alla propria incolumità.

La prima, elementare considerazione che s’impone, è che non è consentito utilizzare lo strumento dell’espulsione per finalità proprie dell’estradizione, al fine di eludere le norme e le garanzie stabilite per quest’ultimo istituto.

L’espulsione si pone al servizio di esigenze – la sicurezza e l’ordine – dello Stato che ospita lo straniero; l’estradizione tende a soddisfare le esigenze di un altro stato, che sia o meno quello di origine dello straniero, il quale ne richiede la consegna per eseguire, nei suoi confronti, una misura cautelare o detentiva.

Benché entrambi gli istituti trovino, come si dirà, dei limiti nelle norme relative alla protezione internazionale (si veda, per l’estradizione, l’art. 698 c.p.p. sul divieto di estradizione della persona a rischio di persecuzione o trattamenti inumani), solo l’estradizione gode, in aggiunta, di garanzia giurisdizionale, ed è soggetta all’osservanza delle rigide condizioni sancite dai trattati.

Se è vero che la Shalabayeva era ricercata, in Kazakistan, per la falsificazione di un passaporto, quello Stato avrebbe dovuto, per ottenerne la consegna, percorrere la strada della richiesta di estradizione, così come avrebbe dovuto fare, si sottolinea, per lo stesso Ablyazov. In entrambi i casi il governo kazako avrebbe dovuto anzitutto superare lo scoglio rappresentato dall’art. 10, comma 4 della Costituzione, che vieta l’estradizione per i reati politici, e poi farsi strada tra i divieti e le condizioni stabilite dalla legge italiana e dai trattati internazionali.

2. Ciò non significa che il diritto di espellere lo straniero non trovi, anch’esso, precisi limiti nell’ordinamento internazionale ed interno.

La cornice internazionale in cui si colloca la materia è rappresentata dalle norme di jus cogens che vietano la tortura da un lato, e da quelle sul non – refoulement dall’altro.

Quanto alle prime, va ricordato che il divieto di tortura e di trattamenti inumani o degradanti è norma perentoria di diritto internazionale, e rientra tra i più classici diritti civili e di libertà.

Il secondo settore trova invece il suo primo riferimento nella Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati, che ha tradotto in norme vincolanti quanto previsto in materia di diritto d’asilo dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. La protezione è ricollegata al motivo (politico, religioso…) per cui è esercitata la minaccia, e il bene tutelato è, nella Convenzione, la “vita o libertà’’ nello Stato destinatario.

All’interno dell’Unione europea, il principale riferimento è rappresentato dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea: la lettura combinata degli artt. 18 e 19 della Carta unisce il divieto di refoulement e l’asilo e li identifica come diritti umani fondamentali.

Tuttavia, è solo con l’adozione della Direttiva 2004/83/CE (c.d. ‘’Direttiva qualifiche’’), che la materia trova, nell’Unione, compiuta disciplina.

A sua volta, l’Italia ha dato attuazione alla Direttiva attraverso il D. l.vo n. 251/2007, in base al quale viene riconosciuta protezione internazionale, e rilasciato permesso di soggiorno per asilo, non solo a chi sia, nel proprio Paese, a rischio di persecuzione (status di rifugiato), ma anche a chi, straniero o apolide, incontri, nel paese di origine, il pericolo di un danno grave, ovvero di condanna a morte, tortura, pene o trattamenti degradanti (protezione sussidiaria).

Così come consentito dalla Direttiva qualifiche, gli artt. 10 e 16 del D. l.vo n. 251/2007 escludono dallo stato di rifugiato e dalla protezione sussidiaria chi abbia commesso, prima del suo ingresso nello Stato italiano, un crimine contro la pace, un crimine di guerra o un crimine contro l’umanità, o un reato molto grave (cioè punito in Italia con pena non inferiore nel minimo a 4 anni o nel massimo a 10) ovvero che abbia commesso atti particolarmente crudeli, anche se perpetrati con dichiarato motivo politico, o, infine, si sia reso colpevole di atti di terrorismo.

La falsificazione di passaporto di cui si sarebbe resa colpevole la Shalabayeva non appartiene ad alcuna di queste categorie.

3. Per la legge italiana, lo straniero a rischio persecuzione perde il diritto alla protezione se è ritenuto persona pericolosa per lo Stato: l’art. 12 del D. l.vo cit. prevede infatti che non possa essere riconosciuto lo status di rifugiato quando ‘’sussistono fondati motivi per ritenere che lo straniero costituisce un pericolo per la sicurezza dello Stato’’ ovvero ‘’lo straniero costituisce un pericolo per l’ordine e la sicurezza pubblica, essendo stato condannato con sentenza definitiva per i reati previsti dall’articolo 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale’’.

Ciò, va sottolineato, non è consentito dalla Direttiva qualifiche: gli Stati membri non possono negare protezione allo straniero che si trovi nelle condizioni di rifugiato, neppure se egli sia giudicato pericoloso per la sicurezza interna dello Stato ospitante. La protezione è assoluta.

Comunque, nel caso di specie, la Shalabayeva non risultava condannata per un reato di cui all’art. 407 c.p.p., sicché l’unico parametro utilizzabile era il primo, cioè il pericolo per la sicurezza dello Stato. In altre parole, in base alla stessa legge italiana, una volta assodato che la donna avrebbe potuto, nel proprio Paese, essere oggetto di persecuzione per motivi politici o altro, la protezione si sarebbe potuta rifiutare solo ove, in base agli elementi oggettivi in possesso delle autorità italiane, ella dovesse considerarsi persona pericolosa per la sicurezza dello Stato.

Si ignora su che basi sia stato fondato il giudizio di pericolosità per lo Stato della straniera.

4. Le norme che espressamente regolano l’espulsione dello straniero nulla aggiungono, o tolgono, a quelle in materia di asilo, di cui rappresentano l’interfaccia: in tanto si può espellere taluno, in quanto egli non abbia diritto di asilo.

L’art. 19 del citato T.U. immigrazione dispone, coerentemente, che ‘’in nessun caso può disporsi l’espulsione o il respingimento verso uno Stato in cui lo straniero possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali, ovvero possa rischiare di essere rinviato verso un altro Stato nel quale non sia protetto dalla persecuzione’’.

Non esiste invece, a rigore, nella legge italiana, una norma che espressamente vieti l’espulsione, giurisdizionale o amministrativa, dello straniero a rischio tortura, benchè quella sul divieto di tortura sia, per il diritto internazionale, norma inderogabile. E’ noto come l’ apposita Commissione d’inchiesta del Consiglio d’Europa – che sfociò nella Risoluzione n. 1507/2006 in materia di consegne segrete a Stati terzi – accertò che alcuni governi europei, fra cui l’Italia, avevano di fatto aggirato il divieto di tortura, norma inderogabile di jus cogens e principio fondamentale dell’Unione, fingendo di ignorare che gli Stati verso i quali essi espellevano, estradavano, deportavano prigionieri sarebbero ricorsi a tortura.

Lo stesso straniero a rischio persecuzione, va comunque sottolineato, è espressamente protetto dall’espulsione solo ove essa abbia – come nel caso di specie – natura amministrativa, ovvero sostitutiva o alternativa alla detenzione, e non quando, invece, abbia natura di misura di sicurezza. L’art. 19, primo comma, infatti, è richiamato testualmente solo nelle disposizioni relative alle prime, con esclusione di quest’ultima categoria (art. 15 T.U. cit.).

Atteso il carattere assoluto del divieto di respingimento, così come inteso dalle norme internazionali e, in particolare, dalla Direttiva Qualifiche, anche in questa parte l’ordinamento italiano appare lacunoso.

5. In conclusione, le norme italiane in materia di espulsione dello straniero si prestano a più di un rilievo, sotto il profilo del rispetto di diritti inderogabili garantiti sia dall’ordinamento internazionale, sia dallo stesso art. 10, comma 3 della Costituzione sul diritto di asilo dello straniero cui sia impedito, nel Paese di origine, l’effettivo esercizio delle libertà democratiche.

Comunque, l’espulsione di Alma Shalabayeva e di sua figlia Alua, anche a prescindere dalle modalità allarmanti con le quali sarebbe stata pianificata ed eseguita, sembra porsi al di fuori dello stesso quadro di garanzie riconosciute dall’ordinamento italiano.

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