Oggi la sentenza Ruby, mercoledì scorso la Consulta sul legittimo impedimento, giovedì prossimo la Cassazione civile sul lodo Mondadori, a fine anno la Cassazione penale sui diritti tv Mediaset: il nuovo gioco di società è l’attesa sempre di una qualche altra sentenza «decisiva» per Berlusconi e quindi — si dice — per l’equilibrio del governo Letta che si regge sul suo appoggio.
Ma ci sarà sempre una sentenza più «decisiva» dell’altra, la prossima immancabilmente più della precedente. Perché ormai a questo sono ridotti i verdetti giudiziari: a essere usati come paravento dall’incapacità della politica di assumersi responsabilità autonome dalle condanne e dalle assoluzioni.
Non c’era bisogno di attendere 19 mesi il pronunciamento mercoledì della Corte Costituzionale per constatare che nel 2010 l’istituzione Presidenza del Consiglio era stata piegata all’interesse personal-processuale di chi si era procurato uno strumentale «legittimo impedimento». E oggi l’inquadramento giuridico che la sentenza-Ruby riterrà di dare alla telefonata di Berlusconi in Questura, calandola o meno in una fattispecie di reato, non accentuerà né mitigherà l’umiliazione di una ex maggioranza parlamentare consegnata al ridicolo («Ruby parente di Mubarak») da un premier ostaggio della propria oggettiva ricattabilità. Così come non sarà certo l’odierna scelta processuale dei giudici, tra gli elementi che militano per escludere e quelli che inducono a ravvisare la consapevolezza di Berlusconi della minore età di Ruby, a disvelare o a offuscare la palese incompatibilità tra taluni comportamenti dell’allora premier e le sue responsabilità di governo.
Il bello è che più si fa finta di attendere «decisive» sentenze definitive e più si fa poi finta di niente quando le sentenze arrivano davvero: basti vedere come imperterrita continua a essere snocciolata la litania di asserite vessazioni giudiziarie milanesi anti-Berlusconi nonostante appena un mese fa la Cassazione (nel respingere il trasferimento a Brescia) le abbia escluse a una a una, qualificandole come «accuse infamanti destituite di qualsiasi fondamento» e tracimate in «superficiale dileggio».
Ed è storia dell’ultimo quindicennio come le motivazioni di sentenze penali che hanno via via dato conto di compravendita di giudici (lodo Mondadori), corruzione di testimoni (Mills), tangenti ad apparati pubblici (verifiche fiscali Guardia di Finanza), falsi in bilancio per mille miliardi di lire (All Iberian) e finanziamenti illeciti a partiti (il Psi di Craxi), siano state digerite senza controindicazioni istituzionali per il solo fatto che la corretta traduzione giuridica di quei fatti fosse stata o la condanna di strettissimi collaboratori di Berlusconi in corrispondenza della sua assoluzione, o la sua non punibilità personale per intervenute prescrizioni e modifiche legislative.
Tutto destinato a ripetersi oggi, e ancor più poi con la già ora mitologica attesa della prossima sentenza «decisiva» di turno: quella della Cassazione sul processo Mediaset, sulla cui pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici saranno in ogni caso gli schieramenti parlamentari ad avere l’ultima parola, quando nella Giunta delle immunità eserciteranno la propria responsabilità politica nel ratificare o disattendere la decadenza da senatore di Berlusconi in forza dell’interdizione eventualmente confermatagli dalla Suprema Corte.
E allora, sia risparmiato almeno il cinema delle sentenze «decisive» gabbate per finte bussole dell’agire politico: al cinema vero, in luogo de «La grande bellezza», novelli Sorrentino e Servillo in erba stanno già crescendo per girare tra qualche anno, come spaccato di questa stagione, «La grande ipocrisia».
Difendiamo la Costituzione, i diritti e la democrazia, puoi unirti a noi, basta un piccolo contributo