Tra paralisi e ritorno al voto

07 Marzo 2013

Il Pd ha fatto le sue proposte. Con buona volontà, ma in termini che appaiono ancora troppo vaghi e generici. Il Pdl è la destra ben conosciuta, in cui non si può vedere alcuna traccia di affidabilità. E Grillo continua a ballare da solo, convinto che, al prossimo giro, resterà in pista solo lui. Prevale una politica limacciosa. Chiusa nei propri tabù.

La partita si è appena aperta. E sarà la più drammatica degli ultimi anni. Per il momento abbiamo sul tavolo le carte messe da Bersani: gli otto punti con i quali il Pd apre al Movimento di Beppe Grillo ed esclude qualsiasi intesa col Pdl di Berlusconi. E’ la prima mossa, ampiamente prevista, con la quale il Partito democratico si presenta all’appuntamento, senza dover scontare, al momento, il rischio di un dissenso interno. Ma i passaggi successivi? C’è una frase di Bersani che rivela, forse in maniera inconsapevole, tutti i dubbi e le incertezze: “Il sentiero è molto stretto, se non lo si supera , almeno lo si sgombrerà dalla nebbia”. Già, la nebbia. “E si fa fatica a fare luce nella nebbia”, come ammonisce il capo dello Stato. Il quale vuole troncare tutte le ipotesi sulle possibili decisioni attribuite al Quirinale  finchè non saranno aperte le consultazioni. “Farò sino in fondo il mio dovere”, dice Giorgio Napolitano. Però, oggi domina la paralisi. E la paralisi ha, tra le possibili conclusioni, il ritorno al voto.

Mettiamo in fila le diverse ipotesi. E arriviamo a questo esito: nessuna  offre convincenti punti d’approdo.

Primo scenario. Bersani ha dal capo dello Stato l’incarico per formare il governo. Il segretario del Pd  si muove per infrangere il muro dei “no” finora venuti dal Movimento grillino. Non può pensare  di avere un’alleanza organica. Deve limitarsi a cercare una via d’uscita praticabile dal groviglio dei diversi veti. Dunque, un esecutivo di minoranza. Che non è un’anomalia, un “monstrum”, come qualcuno mostra di credere. Forme di governo di questo tipo si sono realizzate nei paesi scandinavi, in Olanda, in Spagna, tanto con il primo esecutivo di Aznar quanto con il primo esecutivo Zapatero. La via da battere, in queste circostanze è quella di un accordo limitato, su alcuni punti qualificanti. Dovrebbero servire allo scopo gli otto punti di Bersani.  Ma c’è una sostanziale differenza con gli altri paesi. In Italia, per entrare nella pienezza delle sue funzioni, qualsiasi governo ha bisogno di un’investitura ufficiale, il voto di fiducia. Che Grillo possa concederlo è, allo stato delle cose, un’ipotesi da escludere. Deciderà caso per caso, su ogni singolo provvedimento. Ci sarà una fetta del Movimento, disposta a “sganciarsi”, almeno momentaneamente, consentendo al governo Bersani di avere in qualche modo la fiducia.? A questa possibilità il segretario del Partito democratico, evidentemente, ci crede se ha preso la strada che ha preso, senza mettere nel conto nessuna subordinata. Ma è prevedibile che il capo dello Stato voglia garanzie piene per assegnare un mandato altrettanto pieno.

Secondo scenario. Le altre formule, quali che siano, prevalgano i temi economici o quelli istituzionali, si risolvono nell’idea del “governo del Presidente”, composto da personalità stimate, il più possibile trasversali agli schieramenti politici. Ma perché ottenga la fiducia questo esecutivo ha bisogno del voto del Pd, il partito che dispone alla Camera della maggioranza assoluta, che inevitabilmente sarebbe spinto, a questo punto, verso una qualche forma di confluenza con il Pdl, essendo scontato il rifiuto grillino. In concreto: i partiti non sono direttamente coinvolti, non c’è nessun patto politico concordato tra le segreterie, ma il Movimento 5Stelle potrà ugualmente gridare al “grande inciucio”, preparandosi a raccoglierne i vantaggi. Altro problema, ammesso che questa scelta diventi alla fine praticabile. Il “governo del Presidente” è una creatura fragile, che ha bisogno della vigilanza e della protezione dell’inquilino del Quirinale, della cui volontà è diretta emanazione. Ma il mandato di Giorgio Napolitano scade tra due mesi. E, allora, che succede con un nuovo Presidente? Non rischia il governo di restare come un figlio senza padre?

Terzo scenario. Siamo al ritorno alle urne. Ma come si affrontano le impegnative scadenze di questa fase? Che cosa si fa per il rifinanziamento della cassa integrazione e la copertura per gli esodati, la presentazione a Bruxelles del piano nazionale delle riforme,  il dossier della delega fiscale da riaprire, il capitolo dei pagamenti alle imprese da parte delle pubblica amministrazioni e così seguitando? In Grecia, dopo un esito elettorale paralizzante, si è tornati a votare in tempi brevi e si è formato un governo. Ma in Italia, grazie alla “legge porcata”, stiamo ancora peggio. Le probabilità di un esito negativo, per quanto riguarda il Senato, restano immutate. Il fantasma dell’ingovernabilità non si è certo dissolto. Prima di andare alle urne, bisognerebbe fare almeno la riforma elettorale. Però, quale riforma e con quale maggioranza? Nelle presenti condizioni, nell’intreccio dei veti contrapposti, nessuna buona soluzione sembra praticabile.

Si cammina lungo un sentiero stretto e tortuoso, ricco di insidie. In fondo al quale possiamo, al massimo, individuare il male minore. Il Pd ha fatto le sue proposte. Con buona volontà, ma in termini che appaiono ancora troppo vaghi e generici. Non ha avuto la forza di gettare lo sguardo oltre i confini già esplorati. Quanto agli altri, il Pdl è la destra ben conosciuta, in cui non si può vedere alcuna traccia di affidabilità. E Grillo continua a ballare da solo, convinto che, al prossimo giro, resterà in pista solo lui. Prevale una politica limacciosa. Chiusa nei propri tabù.

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