Da quattro anni e quattro mesi è alla guida della procura di Firenze. Durante questo periodo il capoluogo toscano è finito più volte sotto i riflettori nazionali per le tante inchieste giudiziarie sull’urbanistica e sulle grandi opere, portate avanti tra polemiche e plausi. Lui, il procuratore capo Giuseppe Quattrocchi, a quanti puntano il dito sulle inchieste scomode, soprattutto quelle che coinvolgono politici, risponde sempre allo stesso modo: la procura non inventa i reati, se ci sono noi li accertiamo e poi cerchiamo di arrivare a un processo. Qualche volta arrivano le condanne, qualche volta le assoluzioni: «Ma è normale che sia così — dice — e non sempre dietro le assoluzioni c’è un errore dei pm».
L’ultima inchiesta aperta è quella che ha portato al sequestro della talpa destinata a scavare il tunnel dell’alta velocità per sei chilometri sotto Firenze.
Ancora una volta la procura interviene su un’opera in corso. In tanti a Firenze sostengono che negli ultimi anni le grandi scelte urbanistiche le hanno fatte i magistrati.
Non è colpa della procura se mentre si realizzano le opere qualcuno commette reati. Noi non inventiamo nulla, semplicemente ci imbattiamo in fatti che sono diventati reati. Quando arriviamo noi il reato si è già consumato. E poi specifichiamo una cosa: il sequestro della maxi trivella Monna Lisa non ha bloccato il cantiere. I lavori erano già fermi prima del nostro intervento.
La sensazione è che la procura negli ultimi anni sia intervenuta in situazioni in cui si era creato un vuoto lasciato dalla politica. È così?
Sicuramente siamo intervenuti in alcuni casi dove la politica aveva lasciato un vuoto ma non ci siamo mai sostituiti alla politica. Molti reati potevano essere evitati con una maggiore presenza della politica. Se la politica non fa e da questa assenza nasce un reato è nostro dovere intervenire. Non abbiamo discrezionalità quando ci troviamo di fronte a un reato. Siamo solo il termometro delle situazioni. Noi siamo servi dell’articolo 112 della Costituzione che prescrive l’obbligatorietà dell’azione penale, non siamo negli Usa dove i procuratori decidono cosa fare e cosa no.
Anni fa c’è stata un’altra inchiesta sulla Tav che si è conclusa, dopo le condanne in primo grado, con un’assoluzione in appello di tutti gli imputati, a distanza di quasi dieci anni dai fatti contestati. In genere, con questi processi infiniti, la prescrizione arriva prima dei giudici. Anche su quest’ultima inchiesta Tav è facile prevedere la solita guerra delle perizie che diranno tutto e il contrario di tutto. Gli avvocati stanno già facendo i calcoli dei termini della prescrizione. La gente comune si chiede se abbia senso portare avanti questi processi mastodontici quando già si sa prima di cominciare quale sarà la conclusione.
Purtroppo la lunghezza dei processi è il male della nostra giustizia. Un processo che dura anni non è mai giusto. Non possiamo chiudere gli occhi nei confronti di alcuni reati solo perché la prospettiva è quella di un processo interminabile. Il nostro sistema è appesantito da garanzie apparenti che affondano i processi. In Francia la prescrizione s’interrompe quando si esercita l’azione penale e la Francia non è certo un Paese con un ordinamento medievale. Eppure da noi sembra impossibile arrivare a questa soluzione.
Pochi giorni fa l’ex assessore regionale Cocchi, dopo essere stato tre anni sotto inchiesta, è stato prosciolto dal gip. Intanto però la sua carriera politica è andata in fumo. Quando l’imputato viene assolto il pm ha sbagliato?
Un giudice dell’udienza preliminare ha deciso così, aspettiamo di leggere le motivazioni del proscioglimento. Un giudice ha diritto di pensarla in modo diverso dalla procura. È una forma di garantismo che altri Paesi non hanno. Non è detto comunque che dietro un’assoluzione ci sia un errore del pm.
Non si può negare comunque che ogni azione della magistratura abbia effetti sulla vita politica. Un avviso di garanzia, l’apertura di un’inchiesta condizionano pesantemente. Alla fine questo condizionamento non è un danno sia per la magistratura che per la politica?
I tempi delle inchieste non rientrano nel potere discrezionale della procura. Non c’è nessun capriccio dietro l’apertura di un’indagine.
Crede che le inchieste per corruzione nella nostra città, abbiamo cambiato qualcosa?
Non credo che le inchieste possano avere una funzione educativa, se è questo che intende, portando a un miglioramento dei comportamenti. È lo stesso meccanismo per cui la pena di morte non porta a una diminuzione degli omicidi.
Esiste un rimedio alla corruzione o dobbiamo rassegnarci?
Nessun fenomeno è invincibile, la gente deve sapere che la soluzione dei problemi passa anche dal loro contributo. I cittadini sono un ingranaggio importante del sistema giustizia. La gente deve avere il coraggio di denunciare, e non con gli anonimi.
Quanta collaborazione avete avuto fino ad oggi dai cittadini?
Pochissima purtroppo.
Quando un magistrato prende una decisione così pesante come richiedere il sequestro di un cantiere pensa agli effetti che questa scelta ha sulla città, sull’economia, sui lavoratori?
Certo che ci pensiamo, altrimenti saremmo macchine, non uomini. Non c’è mai cinismo dietro una decisione del genere. E spesso arriviamo a quelle soluzioni solo dopo aver cercato di percorrere la strada meno dolorosa per tutti. Ricordo ancora lo sguardo e l’amarezza del pm quando è entrato nella mia stanza per dirmi che la Richard Ginori stava per fallire.
Nel nostro Paese ogni volta che c’è un’inchiesta si cerca di capire quali siano le idee politiche del magistrato per trovare la genesi dell’inchiesta. Di fronte a un magistrato che si candida alle elezioni politiche un cittadino che cosa deve pensare?
Un magistrato fa un giuramento di terzietà e non dovrebbe mai colorarsi politicamente. Vero è che è un cittadino come gli altri e deve godere quindi di tutte le prerogative costituzionali, però se decide di approdare all’esperienza politica deve essere una scelta senza ritorno, non può rimettersi la toga dopo essere stato in Parlamento.
Emergenza carceri, abbiamo gli istituti penitenziari più affollati del mondo e con il 40% dei detenuti in attesa di giudizio. Quali le soluzioni? Non c’è un eccessivo uso della custodia cautelare nel nostro Paese?
La tristezza è che si pensa di costruire nuove carceri, mentre bisogna capire che devono entrare meno persone in cella. Nonostante il numero dei reati sia in calo non diminuisce la criminalità di piccolo calibro come furti in casa e scippi, che sono quelli che provocano il sovraffollamento. E qui bisogna farsi due domande: se, in questi casi, il carcere sia uno strumento utile a rassicurare la collettività e se serva al recupero del malvivente. Nel corso degli anni abbiamo avuto diverse commissioni che hanno studiato il problema delle carceri ma nessuno è mai approdato a una soluzione. La cosa sconsolante è vedere che queste commissioni nascono e poi cadono nel silenzio, preludio della morte.
Il problema è che il giudice se utilizza il codice di procedura penale così com’è, non è in grado di dare risposte tempestive alla domanda di giustizia dei cittadini. Ogni giorno la procura riversa sul tavolo dei giudici una quantità impressionante di materiale impossibile da smaltire. I processi non possono durare anni, spesso tra un’udienza e l’altra passano anche sei mesi. Su Castello stiamo aspettando da tempo la sentenza, è prevista per il 6 marzo, speriamo che sia così. La verità è che non c’è un solo processo, salvo qualche direttissima, che si concluda in tempi brevi.
Ma i riti alternativi, nati per ridurre i tempi della macchina giudiziaria, non sono serviti ad alleggerire i carichi dei giudici?
Diciamo che pm, avvocati e giudici non ricorrono a sufficienza ai riti alternativi, così è sempre in agguato la maledizione della prescrizione che finisce per diventare un salvacondotto per le responsabilità. Spesso pm e difesa arrivano al patteggiamento però poi c’è la possibilità di ricorrere in Cassazione, così come prevede quell’eccesso di garantismo del nostro codice. E il difensore, giustamente, percorre quella strada. Il patteggiamento diventa così una forma di trastullo. Si fa ricorso perché si sa che c’è la prescrizione, che diventa così un fattore moltiplicatore delle pendenze.
C’è un eccesso di garanzia del nostro codice di procedura penale?
Sicuramente. Non posso dimenticare l’espressione stupita di un magistrato inglese quando gli spiegavo come funzionano da noi i processi. Che, ad esempio, un imputato ha diritto a due difensori e alla doppia notifica degli atti. Lui ha sgranato gli occhi e mi ha chiesto: «Really?». Non ci poteva credere. In Inghilterra, un imputato viene invitato in tribunale con una semplice cartolina. E se non si presenta davanti al giudice, il giorno dopo viene portato dalla polizia in tribunale. Qui i processi vengono continuamente rinviati per difetti di notifiche e impedimento dei difensori. Questo non aiuta la giustizia. In Italia non abbiamo solo tre gradi di giudizio, ne abbiamo di più se pensiamo che la Cassazione può annullare con rinvio.
Indulto o amnistia possono alleviare la grave situazione delle carceri?
Bisogna trarre esperienza dalla storia: non sono serviti nè a risolvere il problema del sovraffollamento né al recupero dei detenuti. Sono solo utili a sgomberare le scrivanie dei magistrati dalla quantità esasperante di fascicoli. Occorre semmai depenalizzare alcuni reati, il pan-penalismo, ritenere cioè di rilevanza penale un numero smisurato di fatti, non serve ad aumentare la percezione di sicurezza. Come diceva il professor Ferrando Mantovani: tutta la penalizzazione è la confessione che la pubblica amministrazione non è in grado di rimediare a quelle violazioni di legge. Il nostro codice prevede una serie di sanzioni che la pubblica amministrazione non è in grado di gestire perché anch’essa è gravata da un eccessivo carico di lavoro.
Il procuratore della repubblica di Milano ha invitato i sostituti ad adottare meno misure cautelari. Un modello da seguire?
A Firenze non credo sia necessario. Non mi pare che i sostituti procuratori qui ricorrano esageratamente agli arresti.
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