Ora che le primarie del centrosinistra sono state archiviate con la vittoria (prevedibile) di Pier Luigi Bersani e che (forse), attraverso queste primarie, sono stati meglio perimetrati i confini del partito e della coalizione, può anche essere giunto tempo perché il Partito democratico chiarisca definitivamente alcuni nodi di fondo della sua identità e della sua idea di politica. Di questi nodi ne elencherò quattro, con l’impressione che possano però essere anche di più.
Primo, la questione delle regole. È inutile infervorarsi in loro difesa contro lo scempio che ne ha fatto il berlusconismo, se poi si è i primi a farne un uso disinvolto. Ne abbiamo avuto la prova quando si è trattato di ammettere Matteo Renzi alla competizione: a norma di statuto del Pd, l’unico candidato, al ruolo di premier o a candidato in primarie di coalizione, poteva essere il segretario di partito, cioè Bersani stesso. Di fronte alla pressione mediatica esercitata da Renzi, anziché riaffermare il valore delle regole, si è preferito modificare lo Statuto. Certo, formalmente non è stata violata alcuna regola, ma è una buona immagine di sé quella che si finisce per dare cedendo così facilmente alla “piazza”?
Questo tocca un secondo punto, relativo alla contendibilità del partito stesso. È chiaro che le cariche apicali di un partito devono essere contendibili; è però meno chiaro perché queste lo debbano essere al di fuori dei luoghi preposti, si tratti di congressi o di primarie interne. Quel che è accaduto all’ultima tornata di primarie è stato invece proprio questo: cercare di rimettere in discussione gli equilibri raggiunti nel 2009 (col voto di iscritti e simpatizzanti), prima quindi del tempo e al di fuori della sede naturale. Può essere in grado di delineare una linea politica coerente un partito che vive di “primarie perenni”?
Questa domanda ci porta a un terzo punto, che spiega in parte il precedente. Il Pd sembra non aver ancora superato il proprio vizio d’origine, il matrimonio tra ex-Ds ed ex-Margherita. A distanza di cinque anni dalla sua fondazione, il Pd continua a sembrare più un matrimonio d’interesse che un connubio fondato su un qualche tipo di condivisione di ideali. Con qualche piccolo rimescolamento negli schieramenti, ogni elezione interna pare in effetti riprodurre la divisione originaria, finendo per far apparire il Pd una di quelle coppie che trova come unica ragione per stare assieme l’eccessivo costo del divorzio.
Infine, ma non da ultimo affatto, queste primarie infinite hanno rimarcato un punto più generale, relativo a come vada intesa la politica. Un sindaco eletto per governare fino al 2014 una delle città più grandi d’Italia non si fa remore a mettersi in pista per diventare leader di una coalizione nazionale e aspirare per questa via alla Presidenza del Consiglio. Questo fatto, oltre a essere forse in contrasto con lo spirito della norma statutaria del suo partito che vieta la duplicazione delle cariche monocratiche in capo alla medesima persona, segna anche l’affermazione di un’idea di politica come carriera: come un manager che continua a “guardarsi intorno” pur avendo firmato un contratto di cinque anni con un’altra azienda, così il camper di Renzi pare legittimare la tesi che le cariche elettive vincolano assai debolmente verso quei cittadini dai quali si è ricevuto il voto, e anzi possono essere utilizzate come trampolino di lancio verso altre cariche più attraenti. Se è forse un po’ da anime belle pensare che la politica venga vista come servizio, come pure sembra suggerire l’art. 51 della Costituzione, non guasterebbe un minimo di savoir faire, per evitare che essa si trasformi non già in professione, ma addirittura in carrierismo rampante.