Quando con lettera ufficiale e pubblica ha invitato il pg della Cassazione a far sì che le procure di Caltanissetta, Palermo e Firenze si coordinino tra di loro, per il miglior funzionamento della Giustizia – che è tutt’altro che un’interferenza nelle indagini, ma anzi è quanto il presidente del Csm (appunto, Napolitano) deve fare in virtù del proprio ufficio –.
Vi è poi un livello prudenziale, di stile; e qui si può affermare che vi è stata qualche telefonata, e qualche risposta, di troppo. Il senatore Mancino si è mosso come se fosse ancora in grado di esercitare un qualche controllo sulle toghe, o come se fosse molto preoccupato di quanto può uscire da indagini e testimonianze; e cita nomi illustri di politici del passato, come a coprirsi o a coprirli. E chiede aiuto a un illustre interlocutore, D’Ambrosio – magistrato in pensione, consigliere giuridico del Quirinale (dove è giunto dai tempi di Ciampi), a suo tempo estensore dell’articolo 41 bis (sul carcere duro ai mafiosi) –, il quale si mostra invero prodigo di consigli e di suggerimenti verso Mancino. Con una dimestichezza e un’amicizia ben spiegabili, ma che, riportate dai quotidiani, non fanno, nel complesso, un bell’effetto. Poiché si prestano a letture in chiave di privilegio, di casta, e insomma contengono spunti – senza che tutto ciò abbia qualcosa a che fare con Napolitano – che possono essere strumentalizzati in un’ottica di populismo isterico e di antipolitica generalizzata.
Infine, c’è un livello etico-politico di lettura dell’intera materia. La fine della Seconda repubblica, che stiamo vivendo, si specchia nella fine della Prima; con troppe continuità di uomini e di problemi, ma anche con qualche differenza. Se sono state intavolate trattative fra Stato e mafia dopo le stragi dell’estate 1992, per ordine di chi, attraverso quali canali, su quali temi, con quali poste in palio; perché ci sia stata in seguito la revoca, per un certo numero di delinquenti, del regime del 41 bis: tutto ciò è appunto l’oggetto delle indagini. Che stabiliranno, si spera, responsabilità individuali, e consentiranno anche di valutare se quell’esercizio della ragion di Stato – opaco, remoto, sottratto finora al giudizio dei tribunali, degli
storici, dei cittadini – abbia davvero salvato qualche bene supremo, o se invece abbia soltanto affondato, com’è più probabile, l’etica pubblica.
Oggi, nel tramonto della Seconda repubblica, caratterizzata da forte ambivalenza rispetto alla mafia (cioè da rapporti di dura repressione, ma anche da sospetti di contiguità sistemica – difficile da provare giudizialmente, come si sa – di una parte del ceto politico con la criminalità organizzata), si coglie l’occasione di attaccare il Quirinale cercando di associarlo, in qualche modo e in qualche misura, a questioni che hanno a che fare con rapporti fra politica e mafia. E ciò denota un altro e diverso abisso etico-politico.
Allora, nel 1992 e nel 1993, si diede il colpo di grazia a una legalità già calpestata da un ceto politico in via di estinzione, mentre ai nostri giorni si cerca di abbattere, delegittimandola, un’istituzione, la presidenza della Repubblica, che ha dimostrato di avere capacità di tenuta e di visione strategica nel momento forse più critico della nostra storia repubblicana. Perno e garante degli equilibri politici, sostegno all’attività del governo, baricentro della repubblica, investito dalla stima di tutti i politici del mondo, e di tutti i cittadini italiani, Napolitano può essere aggredito, o sospettato, o calunniato, o infangato, o fatto oggetto di distorsioni interpretative, solo da chi – garantista o giustizialista, poco importa – in perfetta malafede e con spaventoso cinismo sta cercando il pretesto per far saltare l’intero quadro politico e gioca allo sfascio, al «tanto peggio tanto meglio», forse per ritagliarsi uno spazio – lucrando voti sul disgusto dei cittadini verso la politica, i partiti, le istituzioni – nel prossimo Parlamento (nato, semmai, da elezioni anticipate, celebrate in chissà quale clima di sfiducia e di esasperazione), o forse per sottoporre il Quirinale a pressioni dalle finalità non chiare (la successione al Colle?).
Tutto è torbido in questa torbida vicenda, che paradossalmente nasce dal tentativo di far luce sull’oscurità di vent’anni fa. Una cosa sola è lampante: che una crisi, aperta o sotterranea, che mini l’autorità e il prestigio del Capo dello Stato è, in queste condizioni, qualcosa di più che un atto di irresponsabilità: è un attentato alla democrazia.
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