L’ITALIA cambia colore. Dal weekend elettorale, macchiato dal sangue innocente di Brindisi e dal sisma devastante di Ferrara, nasce una nuova geografia politica. Certo, c’è lo sfondamento trionfale di Grillo a Parma. Ma prima di questo, c’è il mutamento strutturale dei rapporti di forza tra i poli. Fino a ieri, tra i comuni con più di 15 mila abitanti, il centrodestra ne amministrava 98, il centrosinistra 56. Da oggi è l’opposto: il centrosinistra governa 95 città, il centrodestra solo 34. È finito un ciclo, anche se un altro non è ancora cominciato.
Tra primo e secondo turno, questo voto locale riflette in pieno la voglia irriducibile di cambiamento che attraversa il Paese su scala nazionale. Un bisogno di voltare pagina che avviene solo in parte “dentro” il sistema, ma che per il resto alligna non necessariamente “contro”, ma sicuramente “fuori” dal sistema. Liquidato frettolosamente come “anti-politica”, il fenomeno è in realtà molto più articolato e complesso. Nasconde piuttosto una domanda di “altra politica”, alla quale i partiti tradizionali non sembrano più in grado di dare risposta.
Lo dice il pericoloso aumento dell’astensionismo, che ai ballottaggi è cresciuto di 13 punti rispetto al primo turno di due settimane fa e di 11 punti rispetto al secondo turno del 2007. Se ad una tornata locale in cui il cittadino può eleggere direttamente il suo sindaco vota solo il 51,4%, vuol dire davvero che quella che un
tempo si sarebbe definita la frattura tra Paese reale e Paese legale è ormai quasi insanabile, e che la sfiducia non riguarda più solo le nomenklature costose e parassitarie, ma la stessa democrazia rappresentativa.
Lo conferma il clamoroso successo del Movimento 5 Stelle, che va molto al di là della conquista finale nella “Stalingrado” emiliana, dove Pizzarotti ha quasi doppiato i voti del rivale Bernazzoli: vuol dire che ha intercettato non solo i consensi dirottati dal Pdl, ma anche quelli più arrabbiati del Pd. Il grillismo ha fatto il pieno quasi ovunque, da Genova (oltre il 15%) a Verona (9,5%), da La Spezia (10,7%) ad Alessandria (11.7%). Pur presentandosi solo in 101 comuni su 941, dopo il primo turno l’Istituto Cattaneo lo accreditava di un 8,7% a livello nazionale. Dopo i ballottaggi c’è già chi gli accredita addirittura un 20%. Probabilmente il dato è sovrastimato. Sicuramente l’offerta politica dei candidati sindaci scelti da Grillo è più credibile di quella che lui stesso propone per il governo del Paese.
Ma il dato politico è incontrovertibile: il comico genovese ha stravinto. E stavolta non c’è niente da ridere. I suoi competitori hanno ora il dovere del confronto: l’etichetta snobistica da “guitto” sfascista e qualunquista non può più servire. Lui stesso ha ora il dovere della responsabilità: la rendita facile e demagogica dei Vaffa-day non può più bastare.
L’Italia “azzurra” non esiste più: la scomparsa del Pdl dal territorio è più stupefacente persino di quella del suo padre-padrone dal Palazzo. Il partito del popolo delle Libertà ammaina la sua bandiera ovunque, dalle sue roccaforti del Nord alle sue casematte del Sud. E fa quasi tenerezza Angelino Alfano, il povero “segretario senza il quid”, che vede capitolare la trincea proprio nella sua città natale, Agrigento. L’Italia “verde” va scomparendo: la disfatta della Lega è più sorprendente persino della resistenza del Senatur. E fa quasi sorridere Maroni, il povero “barbaro sognante”, che tra le macerie giura “la traversata nel deserto è finita”, senza capire che invece comincia solo adesso. L’asse Berlusconi-Bossi muore qui, insieme all’uso politico della Questione Settentrionale che la “premiata ditta” ne ha fatto in questi lunghi anni, nascondendo i più biechi interessi affaristici dietro i vessilli ideologici del populismo e del federalismo.
L’Italia “rossa” resiste, e semmai riallarga i suoi confini nelle zone in cui li aveva ridotti da anni. Ha ragione Bersani a rivendicare il risultato. Ma al leader del Pd non può sfuggire che il suo partito al momento vive e vegeta soprattutto grazie ai collassi dell’avversario. Non può sfuggirgli che il “grande partito dei progressisti italiani” oggi arriva a stento al 25%. Non può sfuggirgli che, nonostante le ultime “riconquiste” di schieramento, le insegne che svettano sui municipi di Milano o di Genova, di Napoli, di Cagliari o di Palermo non sono le sue. E quanto alla sconfitta di Parma, non può sfuggirgli l’effetto surreale che produce lui stesso, quando replica “non è vero che perdiamo ovunque contro i grillini, il Pd ha vinto a Budrio e a Garbagnate”. Questa è quasi comicità involontaria.
Infine, con il fallimento del Terzo Polo di Casini e senza una seria riforma della legge elettorale, a Bersani non può sfuggire che di qui al 2013 non ci sono vie d’uscita: può solo riproporre un caravanserraglio simil-unionista, insieme a Vendola e a Di Pietro. Una non-soluzione che forse serve a vincere ma non a governare, e che gli italiani hanno già testato con esiti disastrosi nel 2006.
Sfiancati da un quasi ventennio di Forza Italia, gli elettori ora chiedono con forza un'”altra Italia”. Il Pd è ormai il primo partito della nazione. Tocca alla sinistra riformista riscrivere il progetto. Elaborare i contenuti e individuare il “contenitore” che possa raccogliere l’istanza di rinnovamento sempre più urgente nel Paese. Non ci si può sedere sulla riva del fiume, e aspettare che passi il cadavere dei nemici. Chi si ferma a Budrio e Garbagnate è perduto.