Si sprecano gli aggettivi altisonanti: svolta epocale per il mercato del lavoro, fine della concertazione, sconfitta mortale della Cgil. Ma è davvero così? Per farsi venire qualche dubbio si consiglia la lettura del commentino acido scritto da Giuliano Cazzola (craxiano in passato, berlusconiano oggi) sul Quotidiano Nazionale: “…la misura degli indennizzi è particolarmente onerosa tanto da sembrare vessatoria…la Cgil (e quindi il Pd), magari senza accorgersene, conseguiranno un successo, in via di fatto, di ampia portata…”.
Dunque Cazzola, che sicuramente conosce la materia, propone un’interpretazione della riforma del mercato del lavoro targata Monti-Fornero ben diversa da quella che fa stracciare le vesti a sinistra. E sarà difficile formarsi un’opinione obiettiva prima di aver visto quale forma definitiva assumerà il provvedimento. Sarà, come pare, un disegno di legge o magari una richiesta di delega al governo, il che consentirebbe ai partiti forti margini di cambiamento? O sarà un decreto? E, in ogni caso, che cosa ci sarà scritto davvero?
Sono domande ancora senza risposta. Ma per il momento l’unica cosa certa è il terremoto politico che è appena cominciato, e che minaccia di squassare la sinistra fino a raderla al suolo. Vale a dire che è la portata simbolica dell’aver toccato l’articolo 18, non il modo in cui lo si è fatto, a creare scandalo. Tra i partecipanti ai vertici di Palazzo Chigi è diffusa la sensazione che Susanna Camusso sarebbe stata molto meno rigida se non avesse avuto la Fiom di Landini a legarle le mani. Idea verosimile. Altrettanto comprensibile è l’angoscia di Bersani, stretto tra le due anime del Pd, quella “laburista” e quella “montiana”, che gli rende impossibile sostenere le scelte del governo, ma anche opporsi ad esse fino in fondo. Perché questo significherebbe far cadere Monti e risospingere l’economia italiana nel caos. Molti oggi ricordano il decreto di San Valentino, quello con cui Craxi abolì la scala mobile, cioè il meccanismo che agganciava le retribuzioni all’aumento dell’inflazione. Quella decisione sancì la spaccatura definitiva tra Psi e Pci, come oggi la riforma Fornero potrebbe innescare la frantumazione del Pd. Nessuno, però, ricorda come andò a finire: Berlinguer volle il referendum abrogativo, che si tenne dopo la sua improvvisa scomparsa. E il Pci quel referendum lo perse, nonostante la potenza della sua macchina organizzativa e la straordinaria mobilitazione della Cgil.
Ricordare quella amara lezione significa oggi la necessità di impegnarsi a difendere non i simboli, ma la sostanza, ponendo al centro l’interesse dei lavoratori, tutti i lavoratori, e battendosi per una riforma equilibrata che non strozzi né loro né le aziende. E’ un compito che dovrebbe vedere impegnato il Pd ma anche la Cgil, che da troppo tempo ha perso la sua capacità di elaborazione e di proposta. Il sindacato di Luciano Lama, anche lui spesso contestato “da sinistra”, ha lasciato una traccia importante nella storia d’Italia. Possibile che la Cgil di oggi non ne sia più capace?
Si dice che Monti non abbia lasciato spazi alla trattativa. Ma il fatto che non abbia voluto un accordo firmato da tutti tranne la Cgil, liquidato come una furbata decisionista, può anche significare che non intende seguire il metodo Sacconi, quello che puntava ossessivamente solo all’umiliazione del maggior sindacato italiano. Monti si è rifiutato di sancire la rottura, ed è chiaro che non vuole neppure consegnarsi alla destra. E’ la sua forza, ma è anche uno spiraglio per Bersani e Camusso, se sapranno lavorarci sopra.
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