Gli scenari della crisi

07 Febbraio 2012

La scuola di Pavia di Libertà e Giustizia ha fornito un’attenta analisi della drammatica crisi che il nostro Paese sta attraversando, con diversi punti di vista sul come affrontarla, contrastanti previsioni di ciò che ci aspetta nel futuro e differenti ipotesi sul come uscirne.

La scuola di Pavia di Libertà e Giustizia ha fornito un’attenta analisi della drammatica crisi che il nostro Paese sta attraversando, con diversi  punti di vista sul come affrontarla, contrastanti previsioni di ciò che ci aspetta nel futuro e differenti ipotesi sul come uscirne.
L’analisi di Tito Boeri ci riporta alla scorsa estate, quando ormai il nostro Paese aveva perso ogni credibilità agli occhi del resto del mondo, con un debito pubblico altissimo tanto da mettere l’Italia in una posizione più rischiosa di quella della Spagna.
Con l’arrivo del governo Monti la fiducia verso il nostro Paese si è un po’ risollevata soprattutto con i primi decreti quali il “Salva Italia”, il pacchetto “Crescitalia” e le liberalizzazioni.
Ma per acquisire attendibilità e raggiungere i livelli degli altri stati europei è necessario crescere di nuovo, mentre ora il nostro reddito pro capite in area OCSE è l’unico a non essere aumentato e ad essere più basso rispetto al 2000. L’Italia importa più di quanto esporta perché le nostre imprese non sono all’avanguardia nel settore tecnologico, non investono sulla ricerca e lo sviluppo, fanno uso di manodopera non istruita, i giovani che entrano nel mondo del lavoro non hanno ricevuto un’adeguata formazione ed è presente una fortissima regolamentazione delle professioni liberali.
Ciò di cui abbiamo bisogno, secondo Boeri,  è una serie di riforme a “costo zero”, che partono dal presupposto che  la reperibilità di capitali è difficile e gravosa e ci illustra quindi alcune di queste proposte che non comporterebbero spese ma che sarebbero utili a risollevare l’Italia dalla crisi.
Innanzitutto è necessario investire nell’immigrazione, dando la possibilità agli studenti stranieri di partecipare ai concorsi pubblici e fornendo un visto che incentivi i meglio qualificati e meritevoli a restare nel nostro Paese, perché abbiamo bisogno di talenti e di non sottovalutare una risorsa così essenziale  e preziosa come quella degli immigrati. Allo stesso tempo urge rendere più fluido il passaggio dal mondo universitario a quello del lavoro, attraverso l’introduzione dell’apprendistato universitario che garantisca una migliore formazione in università e sul posto di lavoro e l’approvazione di un contratto a tempo indeterminato a tutele progressive per assicurare flessibilità alle aziende rispetto alle assunzioni e un percorso di lungo periodo ai lavoratori. Occorre inoltre riformare la contrattazione salariale con l’introduzione di un salario minimo, come pure ripensare alla pubblica amministrazione al fine di migliorarne la produttività, soprattutto al sud, attraverso incentivi ai lavoratori statali e premi alle amministrazioni valide. Altrettanto utile sarebbe la riforma del lavoro autonomo e degli ordini professionali cambiandone la gestione (che ora è affidata esclusivamente a chi a questi ordini già appartiene) per una maggiore trasparenza e sarebbe opportuno accrescere il lavoro all’interno del nucleo familiare, dando maggiori possibilità soprattutto alle donne e al loro potenziale che troppo spesso non viene preso sufficientemente in considerazione, così come riguardare al sistema pensionistico vigente.
Non mancano proposte rivolte anche al mondo della politica, come la diminuzione del numero dei politici sia a livello nazionale che locale, per poterli scegliere meglio e verificarne le capacità: indicativo il fatto che, come risaputo, l’Italia detenga il maggior numero di parlamentari rispetto agli altri paesi europei, che le loro retribuzioni siano tra le più alte e che il numero di politici in possesso di una laurea stia drasticamente diminuendo; è necessario anche impedire ai politici di cumulare i compensi da parlamentari con quelli di altre attività e rendere i loro guadagni adeguati alla crescita del reddito pro capite degli italiani.
Anche Francesco Daveri parte dal presupposto che la crisi che stiamo attraversando è di un’entità talmente grave da poter essere definita una vera grande recessione: dal 1978 ad oggi il PIL non era mai diminuito così tanto come dal 2009 (meno 0,5%) in poi e soprattutto non si era mai arrivati a una riduzione che riguardasse il mondo intero e non solo alcuni paesi; si è verificata un’esplosione del deficit e del debito pubblico, le tasse sono aumentate, le borse sono cadute, lo spread è altissimo mentre i servizi volti al bene del cittadino sono sempre più scarsi.
Nonostante la gravità dello stato attuale, questa grande recessione però non presenta gli aspetti di una grande depressione, come era invece accaduto con la crisi del ’29 dove il PIL negli Stati Uniti era sceso del 25%.
I dati macroeconomici mostrano infatti che dal 2009 ad oggi vi sono stati piccoli segnali di ripresa e, in un’ottica ottimista, ciò che sta avvenendo potrebbe rappresentare solo un episodio di caduta all’interno di un sistema che resterà in piedi.
Daveri sottolinea come l’intervento dello Stato abbia permesso che questa grande recessione non si trasformasse in una grande depressione grazie alla politica economica attiva e interventista dell’attuale governo e dal ruolo esercitato dalla Germania.
Il professore ci illustra i termini del pacchetto“Fiscal compact”, obiettivo dell’ultimo Consiglio Europeo, approvato la scorsa settimana, che servirà a controllare i bilanci dei paesi dell’Eurozona: non potranno mantenere un rapporto debito/PIL superiore al 60% e rispettare il pareggio di bilancio.
Sul primo punto ci sono molte perplessità, ma fortunatamente la clausola “salvo circostanze attenuanti” prevista nel pacchetto dovrebbe farci tirare un respiro di sollievo, anche considerando il fatto che ciò maggiormente interessa alla Germania è il pareggio del bilancio.
Di tutto altro avviso è il professor Giorgio Lunghini che alla recente affermazione del presidente del Consiglio Mario Monti “ci stiamo avviando alla fine della crisi”, obietta che siamo ben lontani da una soluzione e da una plausibile via d’uscita, non ci sono infatti evidenti segni di politiche di crescita dell’economia. Il maggior indice di crisi di un paese è il tasso di disoccupazione, soprattutto giovanile, che in Italia è in continuo aumento. L’unico paese con piccoli cenni di ripresa nel lavoro sono gli Stati Uniti dove la FED (Federal Reserve System), l’equivalente della BCE europea, non ha come unico obbiettivo la lotta all’inflazione, ma anche la crescita dell’occupazione.
Il professore si mostra altrettanto critico nei confronti delle liberalizzazioni attuate, insufficienti a creare un numero soddisfacente di posti di lavoro per chi è alla ricerca di un’occupazione e alla speculazione finanziaria in atto che frena gli investimenti e la crescita del nostro Paese.
Viviamo in un mondo di conflitto e non di equilibrio, dove i salari scendono e i profitti aumentano, dove i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sono sempre più poveri, dove gli investimenti sono paralizzati per la paura del futuro.
Come uscire quindi da questa grande crisi? Lunghini sottolinea l’importanza di tre “ricette” per la salvezza del nostro Paese, ovvero un’imposizione fortemente progressiva, significative imposte sull’eredità e una pressione sull’iniziativa privata ad investire di più in vista del profitto, lasciando allo Stato ciò che solo esso può e deve fare, ovvero migliorare i servizi per i cittadini, la sanità, l’istruzione, i servizi e le infrastrutture, perché un paese costituito da persone sane, colte e preparate è un paese volto alla produzione.

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