Intorno a Monti e al suo governo si vanno coagulando due opposizioni diverse che, schematizzando, potremmo definire di destra l’una, e di sinistra l’altra. Entrambe crescono fuori dal perimetro parlamentare, ma mettono in fibrillazione i partiti che, in varie misure, si vedono costretti a rincorrerle.
A destra cresce l’insofferenza per la nuova moralità fiscale e per la minaccia ai privilegi delle corporazioni. Questa insofferenza viene apertamente cavalcata dalla Lega e, più sommessamente, vellicata dal Pdl, che spera di intestarsela indicando una nuova bandiera da sventolare: l’abolizione dell’articolo 18.
A sinistra monta la protesta di chi sperava che, liquidato Berlusconi, saremmo miracolosamente entrati in una nuova età dell’oro. Di qui la sollevazione contro gli algidi tecnocrati, affamatori di giovani, pensionati e contribuenti onesti. Per Nichi Vendola, che non ha il problema di votare in Parlamento, è stato facile pretenderne la rappresentanza, subito seguito da Di Pietro, che sa bene di non essere determinante per la maggioranza. Il Pd invece soffre: non può ritirare la fiducia al governo perché provocherebbe la crisi e con ciò spingerebbe il paese nel baratro, ma non può nemmeno schiacciarsi su Monti rinunciando alla propria identità.
Quanto al presidente del Consiglio, è costretto a barcamenarsi ascoltando sia gli uni che gli altri per cercare di pilotare l’Italia fuori dalle secche economiche senza incagliarsi su quelle parlamentari. E’ difficile dire che cosa potrebbe fare davvero se fosse libero da tutti questi vincoli interni. Ai quali, peraltro, vanno aggiunti quelli internazionali. Tutti possono leggere sui giornali le analisi di economisti di fama mondiale, che spiegano come le ricette puramente restrittive non siano in grado di portarci fuori dalla crisi ma, al contrario, possano aggravarla. Ma i governanti europei sembrano impermeabili a quei ragionamenti e anche con loro il governo italiano deve fare i conti.
Questa, dunque, è la realtà, e se si parte da qui bisogna dire che Monti sta facendo del suo meglio. Ha riportato il paese sulla giusta rotta e ha riconquistato un ruolo di prestigio sulla scena internazionale. Tutti i progressi fatti in campo europeo portano la sua firma e perfino Obama gli chiede consiglio. Il che, però, accresce i rischi interni. Si può solo immaginare con quale spirito Berlusconi osservi la scena, mentre i suoi nodi giudiziari vengono al pettine e il suo dominio televisivo viene messo in discussione.
Se esita a staccare la spina è solo perché non ha ancora trovato la giusta parola d’ordine, quella capace di rimobilitare il suo elettorato facendogli dimenticare i passati disastri. Se andasse alle elezioni oggi, il Cavaliere perderebbe, ed è questo che lo trattiene, ma se potesse tornare a vincere non ci penserebbe due volte. E vengono i brividi ad immaginare l’ululato di esecrazione che si leverebbe dall’intero pianeta se l’Italia dovesse ritornare a mostrarsi con la faccia di Berlusconi.
Spetta ai partiti, quelli di sinistra in primo luogo, scongiurare questo finale da film horror. E chissà se ne saranno capaci. Perché la congiuntura internazionale richiede una rielaborazione a tutto campo: di modelli istituzionali e politici, di teorie economiche, addirittura di forme-partito e di forme-sindacato. Cose che appaiono oltre la possibilità di azione per forze come Pd, Idv e Sel, tuttora impegnate soprattutto a sgambettarsi a vicenda. Ma che pure devono essere affrontate perché il ribellismo che sta crescendo nelle piazze non è un fenomeno inedito in Italia. E non ci ha mai portato bene.
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