VIVIAMO il tempo della politica dei paradossi. Quello di Monti è un governo espresso dalle élites che si sono sganciate dalla miscela di populismo e corporatismo, vera fonte di legittimazione dell´esperienza berlusconiana. Eppure, questo governo è il più qualificato a operare in nome della salus populi, della salvezza di tutto il popolo. Élites e popolo non stanno su opposte barricate, quindi; nonostante le furiose proteste di influenti lobby e di parti non piccole della popolazione davanti alle ipotesi di intervento sui mali sociali che la politica ha lasciato incancrenire (evasione, corruzione, particolarismo corporativo), il governo gode (ancora) di una popolarità maggiore di quella che lo stesso premier si aspetterebbe. Così, l´esecutivo – che fisiologicamente dovrebbe essere di parte, ossia l´espressione di un preciso orientamento politico – è oggi un´istituzione relativamente universale, mentre il parlamento è la rappresentanza di una frammentazione sociale e civile che i partiti non riescono a ridurre.
Un ulteriore paradosso è che, a fronte del rispetto che ancora circonda il governo, i partiti siano invece investiti da un´ondata di astio contro la Casta, che è alimentata sia da errori dei politici sia da campagne che giungono ormai al qualunquismo. Eppure, sono proprio i partiti a cercare di salvaguardare – chi più, chi meno: il Pdl sembra più aderente del Pd alle ragioni di piccole e grandi lobbies – gli interessi della propria base elettorale. Insomma, nonostante i partiti sostengano il governo – ma l´impegno che vi mettono non è identico in tutti: qualcuno (il Pd) in questa fase ha guadagnato posizioni, e qualcun altro (il Pdl) le ha perse –, non sembra stia lì, per ora, la sostanza della politica italiana. Che non sta neppure nei partiti di opposizione: si pensi alla Lega, che dà la dimostrazione della massima secondo cui il potere logora chi non ce l´ha.
Quella sostanza, per esile che sia, sta, invece, proprio nel governo; che ha una legittimità formale (ha la maggioranza in Parlamento, a parte i recenti incidenti); che ha una legittimità davanti al momento presente, cioè davanti a quella particolare contingenza che è l´emergenza economico-finanziaria (il “caso di necessità”, che non può azzerare ma che può tentare di gestire); e che può avere una legittimità rivolta al futuro, se riuscirà a sbloccare l´Italia, a civilizzare le corporazioni, a bonificare la società. È evidente a tutti, infatti, che questi compiti fanno parte essi stessi dell´emergenza: che non nasce solo dai conti in rosso, ma anche dalla semiparalisi di una società disuguale, frammentata, statica. Come è anche evidente che per fare dell´emergenza un´opportunità il governo non ha in sé sufficiente energia, e ha bisogno dei partiti; i quali dovrebbero assecondare di fatto i provvedimenti governativi; il che, se avverrà, attirerà ancora di più su di loro la rabbia dei cittadini, e li delegittimerà ancora di più. D´altra parte, la tentazione di far saltare il governo e andare alle elezioni (forte nel Pdl) è tenuta a freno dalle conseguenze catastrofiche che questa scelta potrebbe generare. Insomma, in questa fase, i partiti sono destinati – che abbiano comportamenti altruistici o particolaristici – a essere il bersaglio della frustrazione dei cittadini.
Ora, senza partiti, o con partiti allo sbando, si riprecipita nel populismo, della cui dannosità come forma di governo ormai noi italiani dovremmo sapere qualcosa. Ma per recuperare credibilità a breve non c´è che una strada, per i partiti: che anch´essi si sottomettano a sacrifici, e che anch´essi si adeguino all´esigenza di sbloccare la vita del Paese. Anziché ipotizzare una palingenesi del ceto politico, è più realistico pensare che la Casta rinunci a qualcuno dei privilegi; ma ciò è in parte già avvenuto e non è sufficiente, e in ogni caso tocca i politici in quanto singoli. Il vero sacrificio strutturale, la vera liberalizzazione che potrebbe anche essere una liberazione d´energie civili e politiche, è un´altra: è la riforma della legge elettorale, ovvero la rinuncia dei partiti al privilegio corporativo di nominarsi il parlamento. Una rinuncia che oltre ad essere un passo verso la democrazia – cioè verso la restituzione ai cittadini del diritto di scegliersi i rappresentanti –, avrebbe il significato simbolico di mostrare agli italiani che anche i partiti si sentono parte del problema generale del Paese, e lavorano anch´essi alla sua soluzione. Che così non graverebbe tutta sulle spalle dei lavoratori e dei pensionati, e – forse – neppure dei tassisti, dei farmacisti e dei benzinai; ma anche sugli apparati del potere politico.
Sarebbe, questo, l´ultimo, e il più virtuoso, dei paradossi di questa delicatissima fase politica: facendo la loro quota di sacrifici, e rinunciando a una fetta di potere, i partiti potrebbero riacquistare un po´ di legittimità e d´autorevolezza. Del resto, come spesso succede, questo (molto eventuale) comportamento altruistico sarebbe in realtà egoismo differito. Un atto di lungimiranza che potrebbe salvare i partiti dal baratro in cui li potrebbe far cadere la loro veduta corta. Un messaggio al Paese, da mandare ora; prima che sia troppo tardi.
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