Caro Bersani, la nostra era una piazza “contro”

15 Marzo 2011

Una piazza a difesa della Costituzione, ma contro chi considera la nostra Carta un ostacolo ai propri disegni di potere, contro chi disprezza e vuole demolire la scuola pubblica, contro chi vuole riformare l’impianto costituzionale sulla giustizia per proteggere i potenti rispetto al controllo di legalità.

Le parole che provengono dal PD lasciano ogni volta stupefatti.
Pierluigi Bersani commentando le manifestazioni di sabato 12 marzo a difesa della Costituzione e della scuola pubblica ha detto che quella “non era una piazza contro”. Anche in questo caso il riflesso pavloviano è quello di “troncare, sopire”.
Quella era una piazza contro, eccome. Una piazza pacifica, ovviamente. C’erano soprattutto i “ceti medi riflessivi”. Non c’erano estremisti né “radicali”. Una piazza riformista. C’erano soprattutto gli elettori del PD. Insegnanti, studenti, precari. Tante belle facce di italiani perbene. Ma erano contro. Contro chi considera la Costituzione un ostacolo ai propri disegni di potere, contro chi disprezza e vuole demolire la scuola pubblica, contro chi vuole riformare l’impianto costituzionale sulla giustizia per proteggere i potenti rispetto al controllo di legalità.
Nel complesso la reazione del PD non coglie nel segno e non tranquillizza. Manca la esplicita e necessaria premessa di ogni ragionamento e di ogni scelta politica: quella sulla reale natura del potere di Berlusconi.
La riforma berlusconiana della giustizia va rifiutata non solo perché è sbagliata o perché “non è una priorità” come incredibilmente ha detto Bersani (che è come dire che il problema è sui tempi).
Va rifiutata perché proviene da un governo presieduto da un uomo il cui potere affonda le proprie radici nella illegalità.
Dalla iscrizione ad una loggia massonica eversiva, ai rapporti con i boss di Cosa Nostra nei decenni passati, alla vicinanza ad uomini come Dell’Utri e Previti fino ai tanti fatti più recenti, è un uomo che fonda il proprio potere sui mezzi più spregiudicati e sulla forza smisurata del proprio denaro.
Un uomo con un ego che si espande davanti alle timidezze degli avversari, che si definisce coraggioso ed eroico, che impersona un potere cui ritiene tutto debba essere concesso: un potere dunque antidemocratico, non liberale. Una autocandidatura al Quirinale, e con tre anni di anticipo, è un inedito nella storia repubblicana.
La natura radicalmente illegale del potere berlusconiano è ben chiara ai cittadini che il 12 marzo erano in piazza. Da questo governo non possono venire in materia di giustizia che provvedimenti sostanzialmente eversivi dei capisaldi della Carta Costituzionale. Il berlusconismo ha un conto aperto con la legge fin dalle origini, negli anni ottanta. E infatti di pari passo procede l’iter della legge sul processo breve.
Una riforma costituzionale della giustizia fatta da un uomo così, anche attualmente imputato in quattro processi, non sarebbe concepibile “nemmeno nello Zimbabwe”, come direbbe il D.G. della RAI Mauro Masi.
Berlusconi ha detto del resto che con le nuove norme Mani Pulite non ci sarebbe stata. E’ una ammissione esplicita e proterva: il fine che la riforma si propone è proteggere l’illegalità del potere (politico, economico, imprenditoriale; del potere tutto) dal controllo della magistratura. Assicurare ancora maggiori garanzie di impunità per la enorme sottrazione di risorse in danno dei cittadini che dai tempi di Tangentopoli non si è mai interrotta. E’ questo che i cittadini hanno capito da tempo e che attendono di sentirsi dire con chiarezza e con forza da chi deve rappresentare l’alternativa al berlusconismo.
È bene avere presente fino a quale profondità la riforma proposta demolisce l’impianto costituzionale.
La chiave di volta per scardinare il sistema di garanzie e il bilanciamento dei poteri previsto dalla Costituzione è la riforma dell’art. 112. Il principio della obbligatorietà dell’azione penale resta, ma “secondo i criteri stabiliti dalla legge”. Sarà il Parlamento (un Parlamento di nominati, secondo la attuale legge elettorale) cioè la maggioranza di governo, cioè il governo (qualunque governo) a stabilire quali procedimenti il P.M. debba preferire agli altri, quali fare prima e quali dopo e quali mezzi di indagine, e come, possano essere impiegati.
L’obbligatorietà dell’azione penale fu inserita in Costituzione come espressione del principio di uguaglianza. La legalità è (dovrebbe essere) presidio dei deboli. Ogni cittadino vittima di un reato ha pieno diritto di vedersi tutelato, chiunque ne sia il responsabile, quale che sia il rapporto di forza. Nessuna valutazione di opportunità è giustificata. Nessuno può vedersi negato un diritto in base a valutazioni politiche o di opportunità, o vedersi negati determinati mezzi di indagine perché troppo costosi (il pensiero va, ovviamente, alle intercettazioni).
In un paese in cui il potere è stato non di rado illegale anche ad alto livello (possiamo dimenticare le coperture e i depistaggi sulle stragi e le collusioni politico-mafiose, accertate da sentenze definitive?) anche prescindendo dal berlusconismo non è accettabile che la politica decida se, e comunque quando e come, una indagine deve essere fatta. Se invece si accetta il criterio della obbligatorietà condizionata è logico e conseguente che le scelte, comunque politiche (lo è, ad esempio, anche quella di scegliere, di fronte ad un caso di inquinamento industriale, se tutelare la salute o l’occupazione) siano del Parlamento e che il Ministro della giustizia, politicamente responsabile, ne risponda davanti alle Camere. Ed ecco, infatti, la previsione dell’art. 13 comma 2 del disegno di legge costituzionale. Il Ministro della giustizia riferisce annualmente alle camere “sullo stato della giustizia, sull’esercizio dell’azione penale e sull’uso dei mezzi di indagine”. Questi ultimi due aspetti, dunque, rientrano nei compiti istituzionali del ministro, non solo per un resoconto a posteriori ma, come per “lo stato della giustizia”, quale vero e proprio campo di attività istituzionale del ministro. Il quale, per poter esercitare il proprio ruolo, dovrà poter controllare, passo passo, l’attività delle procure della quale dovrà rispondere.
E il cerchio è chiuso, in danno non tanto dei magistrati ma dei cittadini. Le altre norme completano il disegno.
La situazione attuale della giustizia è indifendibile, come ha dichiarato Stefano Ceccanti, costituzionalista vicino al PD, proponendo di fatto un confronto con il governo sulla riforma. Ma i ciarlatani che propongono cure miracolose bisognerebbe saperli riconoscere, e del resto un confronto che di fatto coinvolga il principio di effettiva uguaglianza sarebbe davvero troppo. E quando Berlusconi dice che con le nuove norme Mani Pulite non ci sarebbe stata, vuole dire che il ministro avrà gli strumenti per impedirlo. Non basta questo al PD per decidere in modo netto e compatto da che parte stare?

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