Sul teatro della vita pubblica italiana va in scena, oggi, una commedia assurda. Assurda e azzardata, perché la rappresentazione potrebbe anche trasformarsi in tragedia, ma come quelle di Beckett, non certo di Eschilo. Appelli delle più alte istituzioni dello Stato alla calma. Minacce di repressioni inesorabili. Inviti ai padri perché tengano a casa i figli. I palazzi della politica isolati. Annunci di guerriglie urbane fantasiose, guidate da un’immaginazione che non va più al potere, come sognavano i ribelli del ’68, ma si rifugia nei vicoli di Roma. Insomma, sembra di essere, stamane, alla vigilia della «madre di tutte le battaglie», alla fine della quale la vittoria della Gelmini aprirà il baratro nell’università del nostro Paese o la sua sconfitta sarà la salvezza per il futuro dei nostri giovani.
Come spesso capita nell’Italia d’oggi, questo clima di eccitazione guerresca è del tutto sproporzionato rispetto alla realtà. Perché tra le parole e i fatti non c’è nessun rapporto logico e lo scontro, pacifico come speriamo, cruento come temiamo, alla fine, sarà abbastanza inutile.
Il motivo, nella sua banalità è desolatamente semplice. La riforma Gelmini, che dovrebbe essere approvata stasera al Senato in via definitiva, è piena di buone intenzioni, propone una ventata di meritocrazia assolutamente necessaria, suggerisce alcuni provvedimenti utili per ostacolare il familismo d’ateneo, ma ha un difetto fondamentale: non prevede maggiori finanziamenti per l’istruzione e la formazione dei giovani italiani. E senza soldi, non c’è riforma che tenga, buona o cattiva che sia.
Ecco perché non vale la pena, per gli avversari della Gelmini, evocare scenari apocalittici. Non sarà l’ingresso di tre non docenti nei consigli d’amministrazione, una minoranza certo non decisiva, ad asservire la ricerca scientifica e la cultura italiana ai biechi interessi del capitalismo e alle spietate leggi del mercato. D’altronde, chi conosce, almeno un po’, gli usi e costumi dell’università di casa nostra sa benissimo che la stragrande maggioranza dei professori non correrà alcun rischio di vedersi decurtato lo stipendio, oltre la misura già decisa da Tremonti, perché quasi tutti saranno giudicati meritevoli del massimo premio. Sa benissimo che nessuno avrà il coraggio di sbattere fuori dall’università ricercatori ai limiti dei quarant’anni che, per oltre dieci anni, avranno permesso di fare esami, tenere lezioni, discutere tesi. Siccome siamo in Italia e non in America, il mercato del lavoro non è in grado di assorbirli e quindi resteranno, meritevoli o no, dove già sono.
Anche i tifosi del governo, però, dovrebbero mettere la sordina alle loro trombe. Come quelle di Berlinguer e della Moratti, le modifiche introdotte dalla Gelmini, senza adeguate risorse, rischiano di cambiare ben poco, nella sostanza, la vita quotidiana nelle aule. Con l’effetto inevitabile di aumentare l’accavallamento delle norme, della burocrazia, della confusione amministrativa e culturale, senza poter portare a quella rivoluzione d’efficienza, a quell’incremento di produttività scientifica e di competitività internazionale che tutti auspicano. La buona volontà del ministro Gelmini, come quella dei suoi predecessori, non si può discutere. Ma la vera rivoluzione, in questo settore, avverrà solo quando ci si renderà conto che l’Italia deve stanziare per l’università e la ricerca almeno le stesse risorse dei Paesi europei a noi più vicini, come la Francia.
Non vale la pena, perciò, assediare il Parlamento, sfoderare caschi e bastoni, lucidare i manganelli, minacciare galere e preparare le molotov. Ma non vale neanche la pena che i politici salgano sui tetti, invochino arresti preventivi, censurino padri che non chiudano a chiave le stanze dei figli. Bisognerebbe che si limitassero a fare i buoni parlamentari e non i protagonisti di una commedia che sta diventando pericolosa. Ascoltino le obiezioni, discutano gli emendamenti, approvino pure la legge, se non ritengono si possa fare di meglio. Dopo, però, si convincano ad aprire i rubinetti del finanziamento. Altrimenti, sarà meglio riporre nei cassetti i sogni rivoluzionari e tornare alla amministrazione accademica del buon senso, quella che misurava le risorse con le riforme possibili. Può sembrare paradossale, ma un giorno qualcuno potrebbe persino rimpiangere la faccia larga e sorridente di una democristiana d’altri tempi: la ministra Franca Falcucci.