Un governo globale è improbabile nel ventunesimo secolo ma vari livelli di governance esistono già. Il mondo ha centinaia di trattati, istituzioni, regimi per disciplinare le relazioni tra gli Stati che coinvolgono telecomunicazioni, aviazione civile, esportazioni transoceaniche, commercio e anche la proliferazione nucleare.
Ma queste istituzioni sono raramente autosufficienti. Richiedono ancora la guida delle grandi potenze. E resta da vedere se le grandi potenze di questo secolo potranno svolgere questo ruolo.
Con l’aumentare del potere di Cina e India, come cambierà la loro condotta? Ironia della sorte, per quelli che prevedono a metà del secolo un mondo tripolare diviso tra Stati Uniti, Cina e India, tutti e tre questi Stati – i più popolosi al mondo – sono tra i più protettivi della propria sovranità.
Alcuni sostengono che le nostre attuali istituzioni globali sono sufficientemente aperte e flessibili perché la Cina trovi il proprio interesse a diventare quello che Robert Zoellick, presidente della Banca Mondiale, ha una volta chiamato un «azionista responsabile». Altri ritengono che la Cina voglia imporre il proprio marchio e, via via che ne aumenta il potere, creare un proprio sistema istituzionale internazionale.
I Paesi dell’Unione europea sono stati i più disposti a sperimentare la limitazione della sovranità statale e possono spingere per una maggiore innovazione istituzionale. Ma è improbabile che, salvo un disastro come la Seconda guerra mondiale, il mondo sia testimone di «un momento costituzionale», come quello sperimentato con la creazione del sistema delle Nazioni Unite dopo il 1945.
Oggi, come istituzione universale, l’Onu svolge un ruolo cruciale nella legittimazione, nella diplomazia delle crisi, nel mantenimento della pace e nelle missioni umanitarie, ma le sue dimensioni hanno dimostrato di essere uno svantaggio per molte altre funzioni. Come ha dimostrato il summit sul cambiamento climatico tenutosi nel 2009 a Copenaghen, riunioni di 192 Stati sono spesso ingombranti e soggette a blocchi politici e a mosse tattiche da agenti in gran parte estranei che d’altra parte mancano delle risorse per risolvere i problemi funzionali. Come ha detto recentemente il segretario di Stato Usa Hillary Clinton: «L’Onu resta l’istituzione più importante a livello mondiale… ma noi siamo costantemente messi di fronte ai suoi limiti… L’Onu non ha mai inteso affrontare ogni sfida. Né deve farlo». In effetti, il dilemma principale che la comunità internazionale deve affrontare è come includere tutti ed essere ancora in grado di agire. La risposta probabilmente si trova in ciò che gli europei hanno ribattezzato «geometria variabile». Ci saranno molti multilateralismi e «mini-lateralismi», che varieranno a seconda del tema con la distribuzione delle risorse energetiche.
Ad esempio, per gli affari monetari, nel 1944 la conferenza di Bretton Woods ha creato il Fondo Monetario Internazionale e da allora si è allargata a 186 Paesi. Ma la predominanza mondiale del dollaro è stata la caratteristica fondamentale della cooperazione monetaria fino agli Anni 70. Dopo l’indebolimento del dollaro e la decisione del presidente Richard M. Nixon di porre fine alla sua convertibilità in oro, nel 1975 la Francia convocò i leader di cinque Paesi nella biblioteca del castello di Rambouillet per discutere di affari monetari. Il gruppo presto crebbe a sette, e successivamente, ampliato nel campo di applicazione e nel numero di aderenti – tra cui la Russia e un vasto apparato burocratico e informativo -, divenne il G-8.
In seguito il G-8 ha iniziato la pratica di invitare cinque ospiti delle economie emergenti. Durante la crisi finanziaria del 2008 questo quadro si è evoluto nel G-20, che permette una partecipazione più ampia.
Allo stesso tempo il G-7 ha continuato a riunirsi con un’agenda monetaria più ristretta; sono nate nuove istituzioni, come il Financial Stability Board mentre le discussioni bilaterali tra gli Stati Uniti e la Cina hanno svolto un ruolo sempre più importante. Come ha detto un esperto diplomatico: «Se si sta cercando di negoziare un accordo di cambio con 20 Paesi o un piano di salvataggio del Messico, come nei primi tempi di Clinton, con 20 Paesi non è facile. Sopra i dieci ottenere risultati diventa troppo dannatamente difficile». Ha ragione, naturalmente. Dopo tutto, con tre Paesi, ci sono tre relazioni bilaterali; con dieci ce ne sono 45; e con 100 interlocutori ce ne sono quasi 5.000. Ecco perché, su questioni come il cambiamento climatico le Nazioni Unite continueranno a svolgere un ruolo, ma negoziati più incisivi sono più probabili in gruppi più piccoli come il Major Economies Forum, dove meno di una dozzina di Paesi rappresentano l’80% delle emissioni di gas a effetto serra.
Gran parte del lavoro di governance globale si baserà su reti formali e informali. Le organizzazioni di rete (come il G-20) sono utilizzate per fissare gli ordini del giorno, la creazione del consenso, il coordinamento della politica, lo scambio di conoscenze, e la determinazione di norme. Come sostiene Anne-Marie Slaughter, direttore della pianificazione politica al Dipartimento di Stato Usa, «il potere che scaturisce da questo tipo di connettività non è quello di imporre risultati. Le reti non sono dirette e controllate, per quanto siano gestite e orchestrate. Più soggetti sono integrati in un insieme che è maggiore della somma delle sue parti». In altre parole, la rete fornisce il potere per ottenere i risultati preferiti insieme agli altri interlocutori, piuttosto che agendo su di loro.
Per far fronte alle sfide transnazionali che caratterizzano l’età dell’informazione globale, la comunità internazionale dovrà continuare a sviluppare una serie di reti complementari e di istituzioni che integrano il quadro globale delle Nazioni Unite. Ma se i principali Paesi sono divisi, è improbabile che anche le organizzazioni di rete, come il G-20 possano fissare l’agenda che permette alle Nazioni Unite e a istituzioni finanziarie come Bretton Woods di agire.
Nel periodo immediatamente successivo alla crisi finanziaria del 2008, il G-20 sembrava aiutare i governi a coordinare le loro azioni e a evitare il protezionismo dilagante. Il mondo attende con ansia di vedere come funzionerà quando si riunirà nuovamente a Seul, a novembre.
*ex assistente del segretario alla Difesa, è professore alla Harvard University e autore del libro di prossima uscita «The Future of Power». Copyright: Project Syndicate, 2010 www.project-syndicate.org
Traduzione di Carla Reschia