Una riforma senza veti

12 Ottobre 2010

Ammettiamo, per ipotesi, che non ci sia una crisi di governo, che non si voti a marzo, che Berlusconi e Fini riescano a trovare un modo per convivere fino alla scadenza della legislatura. Per conseguenza, anche i progetti (le velleità) di ribaltoni e governi tecnici, circolati in questi giorni, dovrebbero essere accantonati. Se ciò accadesse, nel giro di qualche mese, potrebbe verificarsi un miracolo: la classe politica potrebbe essere indotta a ritornare sul tema della riforma elettorale trattandolo, questa volta, con serietà, anziché nel modo scriteriato, agitatorio, sfacciatamente partigiano e, in definitiva, stupido, con cui lo ha evocato negli ultimi tempi.

Berlusconiani e leghisti potrebbero rilassarsi un po’ e smetterla di trattare la legge elettorale oggi in vigore come se fosse la linea del Piave, attribuendole virtù che non possiede. Oltre a tutto, sanno che con l’attuale sistema, dopo la defezione di Fini, non potrebbero riconquistare la maggioranza al Senato. A sua volta, il Partito democratico potrebbe smetterla di agitare il tema della riforma elettorale come un espediente per «fare fuori» Berlusconi, uno strumento per aggregare il fronte antiberlusconiano. I centristi, infine, potrebbero astenersi dall’evocare riforme tagliate sulle loro specifiche esigenze. Venute meno la concitazione e l’urgenza della «resa dei conti», ci sarebbe forse spazio per una riconsiderazione pacata del tema.

Ricondotti dalla forza delle cose alla ragionevolezza i partiti potrebbero prima o poi riconoscere che per fare una buona riforma elettorale occorre rispettare due regole. Numero uno: la riforma non può essere fatta «contro» qualcuno, necessita dell’assenso sia dei grandi che dei medi partiti. Regola numero due: richiede che sia operante, almeno in una certa misura, il «velo d’ignoranza». Significa che la riforma non può essere costruita in modo tale da avvantaggiare manifestamente qualcuno. Questa è la ragione per cui bisognerebbe subito togliere dal tavolo l’ipotesi del cosiddetto sistema «tedesco» (proporzionale con sbarramento al cinque per cento). I sistemi elettorali producono effetti diversi nelle diverse situazioni storiche. In Italia, il cosiddetto sistema tedesco avrebbe l’effetto di dare ai centristi la quasi certezza, comunque vadano le elezioni, di stare comunque al governo, vuoi con la sinistra vuoi con la destra. Più che un sistema «alla tedesca» sarebbe un sistema «alla Casini» (il leader dell’Udc non me ne voglia). Viene violata la regola numero due. Niente velo di ignoranza. Per giunta, o proprio per questo, quel sistema è inaccettabile per i berlusconiani. Dunque, non si può fare. Meglio cambiare musica.

Se si cambia musica non ci si può che indirizzare verso una qualche forma di maggioritario con collegi uninominali. Qui la divisione tradizionale è sempre stata fra sostenitori del turno unico e sostenitori del doppio turno. Ma esiste, come vedremo, anche una terza possibilità che potrebbe ricomporre quella storica frattura e, ciò che più conta, potrebbe non dispiacere ai grandi e medi partiti oggi presenti (Popolo della Libertà, Lega, Finiani, Centristi, Democratici). La soluzione possibile comincia a farsi strada grazie al lavoro di un gruppo, espressione delle più diverse tendenze, di politici e intellettuali che ha visto fin qui come animatori personalità quali Pietro Ichino, Marco Pannella, Mario Baldassarri, Antonio Martino, e che ha appena costituito una «Lega per l’uninominale» cui hanno già aderito una trentina di parlamentari sia della maggioranza che dell’opposizione. E che gode anche del sostegno di studiosi e esperti indipendenti.

La soluzione possibile è la seguente: sistema maggioritario con collegi uninominali e a turno unico (come in Gran Bretagna) ma, e sta qui la novità, con la facoltà per l’elettore di dare non uno ma due voti (una prima e una seconda scelta). Vince il seggio il candidato che ottiene più voti sommando prime e seconde scelte. È una variante del sistema australiano ed è stato utilizzato recentemente nella sfida elettorale interna al Partito laburista britannico fra i fratelli Ed e David Miliband. L’effetto «sistemico» sarebbe quello di ridurre la frammentazione politica: in ciascun collegio avrebbero reali chance di vittoria non più di tre o quattro candidati. Soprattutto, è una proposta che garantisce il velo di ignoranza e, pertanto, può superare i veti incrociati.

A destra, il sistema delle due scelte a turno unico consentirebbe al Popolo della Libertà e alla Lega di perseverare nella loro «alleanza competitiva» al Nord lasciando impregiudicato il risultato. La stessa cosa varrebbe, nel Centro e nel Sud, nella competizione fra berlusconiani e finiani.

A sinistra, il Partito democratico giocherebbe sulle prime scelte degli elettori soprattutto nelle sue tradizionali aree di insediamento ma potrebbe anche risultare più competitivo di oggi in altre aree se riuscisse a intercettare un numero alto di seconde scelte. Inoltre, anche senza doppio turno, il Pd potrebbe, grazie al doppio voto, mettere a punto una sua strategia delle alleanze.

Il sistema, che punisce le formazioni piccole, costringerebbe, inoltre, Di Pietro, Vendola ed altri, a creare una aggregazione a sinistra del Pd con lo scopo di sommare ai propri voti le seconde scelte degli elettori di quel partito. I centristi di Casini, infine, non sarebbero affatto penalizzati a priori. Grazie alla collocazione di centro potrebbero sperare di intercettare le seconde scelte sia di una parte degli elettori del centrodestra che di una parte di quelli del centrosinistra.

Il sistema ipotizzato punisce severamente le micro-formazioni ma lascia impregiudicato il risultato di quelle grandi e medie. Accanto al pregio di ridurre la frammentazione politica, ne avrebbe anche un altro. Renderebbe meno conveniente la violenza verbale. Nessuno potrebbe rinunciare alla propria identità (perderebbe i suoi elettori) ma l’obbligo di andare a caccia anche di seconde scelte favorirebbe, nel confronto fra avversari, una maggiore moderazione di linguaggio e toni. Forse, ragionando di riforma elettorale sarebbe il caso di partire da qui. Anziché continuare nella inutile, e sempre più stanca, riproposizione di ricette confezionate con espliciti intenti partigiani.

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