Come ricorda Marco Onado in un recente saggio (I nodi al pettine. La crisi finanziaria e le regole non scritte), la crisi finanziaria ha reso tutti più poveri: nel 2008 le borse mondiali hanno perso quasi 30 trilioni di dollari (la metà del PIL mondiale, cioè del totale dei beni e servizi prodotti). E in questo contesto si è fortemente accentuato il “paradosso” della finanza.Ma cosa intendendiamo con questa espressione? Semplicemente questo: se, sotto un profilo macroeconomico, è ormai provata l’esistenza di un nesso “positivo” tra sviluppo finanziario e crescita economica di un sistema Paese, l’opinione pubblica percepisce i mercati finanziari, da un lato, come un grande gioco d’azzardo che crea valore per alcuni, ma non per il sistema (una sorta di Kasino Kapitalismus, come direbbe l’economista tedesco Sinn), dall’altro come uno strumento per rafforzare le grandi imprese (nazionali e multinazionali), le quali per le dimensioni economiche raggiunte (soventi superiori al PIL di molti Stati nazionali) e per la loro intrinseca struttura operano, di frequente, come fattori distorsivi del processo democratico. E sale poi l’indignazione popolare per i compensi dei managers, troppo spesso sganciati da ogni realtà. Basti pensare, come ricorda ancora Onado, al caso di Richard Fuld, Ceo di Lehman (l’unica banca fallita), il quale ha guadagnato 45 milioni di dollari nel 2007 e fra il 1993 e il 2007 ha portato a casa la bellezza di mezzo miliardo di dollari, più di 4 volte il Pil della Nigeria.E’ giunto allora il momento di riportare la finanza nella sua esatta dimensione, valorizzandone il ruolo che può avere (anche) nello sviluppo della mobilità sociale.
In sostanza, occorre prendere consapevolezza che mercati finanziari competitivi sono uno strumento di straordinaria efficacia per ampliare le opportunità di tutti, dal momento che, sovvenzionando i nuovi entranti la finanza moltiplica anche le opportunità e introduce nuove idee (è uno dei tanti spunti suggeriti da Rajan e Zingales, Salvare il capitalismo dai capitalisti).Per fare questo una sola via sembra possibile: introdurre “regole” e non illudersi che i mercati finanziari siano intrinsecamente “efficienti” e capaci di autoregolamentarsi nel migliore dei modi. E se è vero – come insegna Anthony Giddens – che lo Stato “sociale” deve passare da un Welfare “curativo” (che “raccoglie i cocci quando ormai sono rotti”) a un Welfare “preventivo” (incentrato sull’investimento sul c.d. capitale umano e sul tentativo di offrire a tutti eguali possibilità) l’intervento dello Stato per lo sviluppo e la regolamentazione dei mercati finanziari potrebbe rappresentare un mezzo per (contribuire a) costruire un Welfare cosiddetto preventivo e migliorare, anche per questa via, lo stato della nostra democrazia.
* Umberto Tombari, Ordinario di diritto commerciale presso l’Università degli Studi di Firenze, è socio di LeG
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