Dopo la bocciatura del cosiddetto lodo Alfano, lo stesso ministro della Giustizia che aveva confezionato sulle vesti del Cavaliere lo scudo per i processi in cui il presidente del Consiglio è impeciato, ha osato dichiarare al Corriere della Sera che di immunità parlamentare “si può tornare a parlare”. E’ vero, aveva aggiunto prudentemente, che il ripristino dell’immunità “non è nel programma di governo votato dagli elettori, ma è materia che meriterebbe un serio approfondimento” addirittura “con l’opposizione, dopo il congresso del Pd”.
Detto e fatto: il senatore del Pdl Lucio Malan – non un peone, ma uno che conta – ha presentato il 20 ottobre, cioè martedì della settimana scorsa, un disegno di legge costituzionale che ripristina in toto il principio dell’immunità-impunità parlamentare, così com’era in Costituzione sino all’indomani di Tangentopoli. Il progetto reca il numero 1.831, ma è così fresco di scrittura che non è stato ancora neppure stampato. Il che ha dato tempo al ministro Alfano di far finta di rimangiarsi le prime disponibilità e addirittura di negare un paio di volte (in Calabria e in una intervista) di aver “mai parlato di immunità”. Forse Alfano ha capito (o teme) come e quanto sia problematico far passare questa riforma ad personam che esige doppia lettura delle Camere a distanza di tre mesi e, certamente in questo caso, un referendum confermativo.
Allora, per prima cosa, dobbiamo ricordare ai più, e soprattutto ai più giovani, la storia di questo istituto.
Cominciamo da una data in qualche misura storica nella vicenda politica italiana: il 29 ottobre 1993. E’ infatti quel giorno che, con la approvazione a larghissima maggioranza della legge costituzionale n. 3, viene abolita la (piena) immunità per i parlamentari. Prescriveva l’art. 68 della Costituzione, al primo comma, che “i membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni”. E sin qui tutto è restato come prima. Aggiungeva però quello stesso articolo, al secondo comma, che “senza autorizzazione della Camera alla quale appartiene, nessun membro del Parlamento può essere sottoposto a procedimento penale; né può essere arrestato o altrimenti privato della libertà personale, o mantenuto in detenzione, salvo che in esecuzione di una sentenza irrevocabile di condanna, ovvero se colto nell’atto di commettere un delitto per il quale è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza”. Disposizione finale, al terzo comma: “Eguale autorizzazione è richiesta per trarre in arresto o mantenere in detenzione un membro del Parlamento in esecuzione di una sentenza anche irrevocabile”.
Poi, sull’onda di Tangentopoli e dei tanti inquisiti tra i parlamentari (ricordate il caso limite dell’impunità concessa a Bettino Craxi, e le conseguenti dimissioni dei ministri designati dalla sinistra nell’appena costituito governo Ciampi?) è stato giocoforza procedere ad una riforma profonda dell’art.
68. Fermo restando il principio che deputati e senatori non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni, sono state cancellate le norme che prescrivevano l’autorizzazione al magistrato tanto per potere aprire procedimento penale nei confronti di un parlamentare quanto per procedere all’arresto in esecuzione di sentenza irrevocabile di condanna.
Ebbene, anche se il testo letterale della proposta di Malan non è ancora consultabile, il senso è chiaro: ripristinare integralmente le norme originarie. “Fu un errore modificarle nel ’93 sull’onda della piazza”, ha detto costui: “Erano in Costituzione per volere di tutti, e in Costituzione devono tornare: nessuno potrà dire che non sia una norma costituzionalmente lecita”. E dietro di lui un coro: da Cicchitto (“non è un tabù”), a Brunetta, a Cossiga (“appelliamoci alla Costituente”), a, manco a dirlo, Silvio Berlusconi che intanto ha incaricato il suo avvocato Niccolò Ghedini di preparare (ma c’è contrasto nella maggioranza, e il veto della Lega e della presidente finiana della commissione Giustizia della Camera, Giulia Buongiorno) un pacchetto di “riforme” contro i “giudici comunisti”, in testa alle quali c’è la prescrizione breve, attraverso la quale il Cavaliere cercherà di sfuggire al processo in cui il corrotto Mills è stato già due volte condannato mentre, grazie al lodo Alfano, il corruttore l’ha fatta franca sino ad ora.
In subordine, trasformare in legge l’ukase berlusconiano contro i pm e i giudici di Milano: “Per i reati commessi dalle alte cariche la sede giudiziaria competente è quella di Roma”. Che faccia di bronzo.
Le repliche a Malan & soci sull’immunità non erano intanto tardate. Ripristinarla? “Lo vadano a raccontare agli italiani, e vediamo come reagiscono”, è stato il secco commento di Anna Finocchiaro, presidente dei senatori Pd: “Con questa maggioranza sappiamo con certezza che l’autorizzazione a procedere non verrebbe usata per tutelare la libertà di esercizio della funzione parlamentare, come avevano voluto i costituenti, ma, al contrario, per rendere dispari i cittadini di fronte alla legge”. Sulla stessa linea d’onda il segretario uscente dei Democratici, Dario Franceschini: “Mai”. Durissimo anche il leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini: “Oggi è del tutto inappropriato parlare di immunità. E’ il momento di parlare piuttosto dei problemi degli italiani, non di quelli dei parlamentari”.
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