Scorrono in televisione le immagini del funerale di Michael Jackson, e la memoria corre ad un episodio di ventuno anni fa. Lo raccontai nel maggio 2005 nella rubrica (“Aperto per Restauri”) che tengo ininterrottamente dal 1994 sul Giornale dell’Arte; e oggi lo ripropongo a Libertà a Giustizia, nel ricordo di un’esperienza indimenticabile, con alcuni minime varianti per adattare meglio questo testo alla circostanza di oggi, 7 luglio 2009. Correva il giugno del 1988; da tre mesi non ero più direttore della Galleria dell’Accademia di Firenze, essendo diventato soprintendente dell’Opificio delle Pietre Dure, ma fu proprio con me che si mise in contatto una voce anonima prospettando la possibilità di una visita alla Galleria da parte di Michael Jackson, nel corso di un suo tour italiano (mi pare per promuovere il suo videoclip “Bad”). A farla breve, e dopo che in accordo con la direttrice facente funzione (e attuale direttrice) Franca Falletti avevamo contrattato con i manager di Michael una serie di impegni reciproci, all’insegna comunque del più rigoroso segreto (e ovviamente in un momento di chiusura del Museo), giunse il dì fatidico. Alcuni monovolume presi a nolo si fermarono davanti all’ingresso di Via Ricasoli 60, e, circondato dalla scorta, comparve lui. Fra le guardie del corpo ricordo un nero di dimensioni pari all’incirca al David di Michelangelo, ma molto più panciuto, che per passare ancor più inosservato si era messo in testa un cappello a cilindro.
Michael mi fece una curiosa impressione; mi faceva venire in mente qualcosa, che sul momento però non riuscivo ad identificare; sembrava comunque qualcosa di artificiale. Si muoveva leggermente, con passo danzato straordinariamente elegante, e francamente era un piacere guardarlo. Vestiva pantaloni neri, una camicia rossa e una sciarpa scozzese di Burberry’s, calzini bianchi e mocassini neri. Non depose mai gli occhiali scuri. Alcuni del seguito lo filmavano con videocamere mentre scivolava davanti ai “Prigioni” di Michelangelo, fino ad arrivare davanti al David, attorno al quale girò ripetutamente, con lo sguardo all’insù. Scambiava brevi frasi con i suoi, sorridendo dolcemente; l’espressione, per quanto trapelava da sotto gli occhiali, sembrava sorpresa, incredula, ma divertita. Naturalmente non era possibile capire quali impressioni riportasse dalle opere straordinarie che aveva davanti. Ad un certo punto, accondiscese con grazia a firmare autografi alle mie figlie e ai figli di Franca. Poi, per me inaspettatamente, il gruppo accettò di salire anche al primo piano, alle sale dei “Primitivi”, ricche dei fondi oro fiorentini del periodo gotico, inaugurate tre anni prima. L’atmosfera era rilassata, tranquilla; il gruppo di Michael e dei suoi accompagnatori si muoveva senza fretta. Volli lasciargli un ricordo della visita, e poiché allora nei musei non c’erano ancora i book-shops (la “Legge Ronchey” era di là da venire), detti del denaro al capocustode, il signor Cassigoli, e lo pregai di uscire in strada a comprare al negozio lì davanti la mia Guida illustrata della Galleria.
Quando me la portò, davanti a Michael scrissi la mia dedica; il luogo e la data, e poi “For Michael Jackson, in remembrance of his visit at the Galleria dell’Accademia”; infine, la mia firma. E qui avvenne un fatto curioso. Michael prese in mano il libretto, lesse, e mi guardava sbalordito, lo sguardo correva alternativamente dalla pagina a me, e di nuovo all’incontrario. Finché si volse al manager, e gli domandò: “Who’s this guy who’s signing his autograph to me?!?”: evidentemente il suo genere di cultura gli faceva identificare la mia firma di autore con un autografo, e probabilmente (di qui la sua sorpresa…) era la prima volta in vita sua che qualcuno faceva l’autografo a lui, e non il contrario. Provarono a spiegargli che ero il direttore del Museo, ma questa nozione non sembrava capace di afferrarla; poi gli dissero allora che ero uno studioso di Michelangelo, e stranamente quest’indicazione sembrò soddisfarlo; e comunque in qualche modo il concetto “Michelangelo” doveva possederlo.Quando mi passò davanti per andarsene (niente stretta di mano: ero stato avvertito che non gradiva), insieme col suo gruppo, capii all’improvviso qual era l’impressione che mi faceva venire in mente: quella di un manga, un cartone animato giapponese, con gli occhi abnormemente grandi, il nasino improbabile e il viso costruito per tratti convenzionali ed esagerati, che per la prima e unica volta avevo visto sorprendentemente incarnarsi in una persona fisica. Sul piano di una reazione puramente istintiva, non avevo potuto fare a meno di ammirare la sua leggerezza da farfalla meccanica; artificiale, ma incantevole.
A tanti anni di distanza, mi trovo ad augurargli che la leggerezza della terra che copre oggi questa straordinaria incarnazione di un mai cresciuto Peter Pan sia pari a quella che lo distingueva su chiunque altro. Quanto alla mia Guida della Galleria, con la dedica che lo aveva stupito, chissà dove sarà finita; chissà se qualcun altro l’avrà sfogliata, domandandosi anch’egli chi era quel tale che aveva fatto l’autografo a Michael Jackson.
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