E’ stato bravo, Gianfranco Fini. Bravo nel dire come meglio non si poteva quali sono le regole fondamentali della democrazia: il ruolo forte del Parlamento, la laicità dello Stato, il rifiuto del culto della personalità e del pensiero unico, l’atteggiamento imparziale di fronte al fenomeno dell’immigrazione. Non sono cose di destra, e neppure di sinistra: a ben vedere, questi sono i principi che dovrebbero essere condivisi da tutti gli schieramenti e in quanto tali dovrebbero rappresentare la cornice nella quale inquadrare la dialettica politica.Ma se il discorso del presidente della Camera al congresso di scioglimento di An ha fatto tanto rumore vuol dire che le cose non stanno così. Infatti quel discorso suona eretico proprio per la destra berlusconiana. Però Berlusconi in persona si è congratulato con lui, e così ha stoppato le critiche di lesa maestà che avrebbero potuto fioccare sul capo del temerario Fini. Al Cavaliere non serve, è evidente, una disputa di questo tipo: meglio finirla lì, tanto più ora che An e il suo leader non sono più un problema.E’ un copione già visto molti anni fa. Era il 1998 e a Verona, nei giorni a cavallo tra febbraio e marzo, si svolgeva la prima Conferenza programmatica di Alleanza Nazionale, nata tre anni prima a Fiuggi. Lì Fini tentò per la prima volta di costruire una vera destra moderna ed europea, come allora si diceva. La scenografia era molto diversa da quella a cui i vecchi missini erano abituati: una beneaugurante coccinella come simbolo, un gran lavorare di commissioni per studiare proposte di programma adeguate al futuro, un clima di riconciliazione nazionale da far crescere nelle coscienze della destra come stava crescendo in quelle della sinistra.
I vecchi militanti assistevano un po’ spaesati ma fiduciosi, pronti ad accantonare il vecchio armamentario polemico in nome di un avvenire politico che li avrebbe visti protagonisti.Poi a Verona arrivò Berlusconi e tutto cambiò. Già perché il Cavaliere, l’uomo a cui la destra doveva tanta gratitudine, entrò in sala seguito da uno stuolo di omoni nerboruti che portavano pacchi di copie del “libro nero del comunismo”, prontamente distribuiti in platea. Quindi salì sul palco e tenne un discorso di fuoco sul nemico comunista, chiamando alla guerra i presenti. E così un Fini pallido ed esterrefatto vide fallire tutta la sua operazione: il partito venne risospinto indietro, i militanti si sentirono riproporre le loro vecchie parole d’ordine e naturalmente preferirono tornare a rifugiarsi nelle antiche certezze piuttosto che intraprendere la via faticosa che il loro leader aveva indicato. Anche allora Berlusconi trattò Fini come lo tratta adesso: gli diede ragione e lo ringraziò. Ma andò avanti per la sua strada, schiacciandolo senza complimenti.Fini non riuscì a contrastarlo, e non ci è più riuscito in seguito. L’impressione, anzi, è che l’attuale presidente della Camera abbia via via perso terreno nel suo partito, e che adesso la sua sia una voce nel deserto. Si dice che quello all’ultimo congresso di An sia un discorso volto al futuro, un’ipoteca posta sulla successione a Berlusconi, magari in alternativa all’astro crescente di Giulio Tremonti. E che rappresenti un atto di disprezzo per la nomenklatura di An, berlusconiana già prima dello scioglimento del partito.
Ma il rovescio della medaglia è che se Fini può provare sollievo per essersi sbarazzato di un partito-zavorra, i generali di quel partito siano altrettanto sollevati per essersi sbarazzati di lui: sgomitare alla corte di re Silvio deve sembrare a tutti loro assai più confortevole che stare al fianco di un leader in disgrazia.Perciò è difficile credere all’esortazione di Fini che An possa essere il lievito del Pdl, che possa trasformare la creatura berlusconiana in un partito vero, fatto di lotta politica oltre che di ossequio al Capo. A meno che Fini non trovi il modo di combattere per questo obiettivo. Cosa che, va ripetuto, in tutti questi anni non è riuscito a fare.
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