Forse, è questione di ottusità, come dice Salvatore Bragantini: “Siamo sacarsamente portati a capire come funzionano costi e ricavi per l’amministrazione pubblica, anche se sono soldi nostri, alla fine”. Forse, più semplicemente – è il parere di Massimo Bordignon – “sappiamo calcolare, ma poi tutto si ferma e non si sa mai il perché”. All’indomani dell’ok di Palazzo Madama al decreto anti-fannulloni, il circolo milanese di LeG ha dato appuntamento a soci e simpatizzanti per fare il punto sul tema che ha ottenuto consensi bipartisan in Parlamento. Tra i relatori, oltre all’ex commissario Consob Bragantini e a Bordignon che insegna Scienza delle finanze alla Cattolica di Milano, ci sono anche Pietro Micheli della Cranfield University e Pietro Ichino, senatore del Pd, promotore per l’ultimo governo Prodi di un testo di legge sul riordino della pubblica amministrazione, ripreso in parte da quello approvato in questi giorni al Senato.
I numeri della scuola A Bragantini spetta il compito di moderatore della serata, anche se la partenza è provocatoria: “Siamo portati a vedere la pubblica amministrazione come ente a sé, al quale noi cittadini ci adattiamo”. Il disastro non è questione di leggi, assicura: “piuttosto di costumi”. Bordignon, che è stato coordinatore del gruppo sul ministero della Pubblica istruzione nella Commissione tecnica sulla finanza pubblica (Ctfp), porta la sua personale esperienza sul mondo della scuola.
E parte dai numeri e dal confronto con i dati internazionali per dimostrare che in Italia la scuola ha bisogno di serie riforme strutturali, non certo di tagli indiscriminati. “Eliminando le numerose inefficienze gestionali e organizzative del servizio, che producono un elevato rapporto docenti studenti, si potrebbero risparmiare fondi da reinvestire nell’istruzione”. Eccoli i dati: “La spesa pubblica sull’istruzione primaria e secondaria in rapporto al Pil è in Italia approssimativamente uguale a quella media Ocse e dei principali paesi europei. Nel 2004 (ultimo dato disponibile) era pari al 3,3 per cento del Pil, mentre la media Ocse era del 3,6 per cento e quella europea del 3,4. La spesa per studente, per elementari e medie è più alta in Italia che all’estero (mentre è più bassa quella per l’università). Nel 2004, a parità di potere d’acquisto, era pari a 7.390 dollari per la primaria e a 7.843 per la secondaria, contro, rispettivamente, 5.832 e 7.226 nella media Ocse e 5.778 e 7.236 per la media europea”. Perché allora spendiamo così tanto? “Perché abbiamo troppi insegnanti. L’elevata spesa per studente, e l’elevata spesa per il personale sul totale, dipende essenzialmente dal fatto che in Italia ci sono più insegnanti per studente (e personale Ata). Nel 2005, c’era un docente ogni 10,6 alunni nella scuola primaria e un docente ogni 10,7 studenti nella scuola secondaria. Le cifre corrispondenti per la media Ocse erano 16,7 e 13,4 e 14,9 e 12,2 per la media europea”.
La valutazione dei risultati, in assenza di sistemi nazionali, è affidata soprattutto ai test PISA. “E se la scuola elementare si salva, quando si passa ai quindicenni siamo al disastro. Ciò è preoccupante, perché tutte le indagini mostrano una forte correlazione positiva tra i risultati di questo test e gli indicatori di sviluppo economico: crescita del Pil, numero di brevetti, capacità di adottare nuove tecnologie, investimenti e così via”.
L’esperienza ingleseSi basa sull’esperienza, tutta giocata in Gran Bretagna, Pietro Micheli che dallo studio del “performance management”, “la misura cioè della performance qualitativa e quantitativa di una pubblica amministrazione”, unita alla filosofia del “continuousimprovment, cioè del miglioramento continuo”, ottiene risultati. Gli esempi? Eccoli. “Nel dipartimento di urbanistica di un piccolo comune inglese, dopo il nostro intervento, si è passati da 28 giorni a tre per rimuovere un veicolo; in un’agenzia governativa il lavoro per capire come era smistata la posta, stampa e telefonate, ha fruttato un risparmio di un milione di sterline, in un solo mese, e una previsione di risparmio di 695 mila sterline per il prossimo anno”. Non si tratta solo di guadagni monetari: “Nel pronto soccorso di un grande ospedale, i tempi d’attesa sono diminuiti del 48 per cento, passando da 135 a 70 minuti; nel reparto di traumatologia la mortalità è scesa del 47 per cento e il numero di pratiche del 42”.
La regola di HirschmanTocca però a Pietro Ichino spiegare il semplice meccanismo che dovrebbe regolare anche la pubblica amministrazione.
“Secondo la regola di Hirschman, le grandi organizzazioni possono avere due spinte fondamentali al miglioramento: la prima si chiama opzione exit, è la possibilità che gli interlocutori possano andarsene, in sostanza è l’opzione della concorrenza; la seconda è l’opzione voice, la possibilità di interferire, protestare, farsi sentire dall’organizzazione. Se nessuna delle due opzioni sono date, l’organizzazione è destinata al collasso. La nostra amministrazione pubblica è in questa situazione, alla quasi intollerabilità dell’inefficienza”. Quanto è stato fatto sin qui, per migliorare il servizio al cittadino? “In Italia sono state fatte notevoli, rilevanti riforme per avvicinare la pubblica amministrazione alla struttura dell’azienda privata, cito su tutte le riforme Cassese e Bassanini, per esempio; ma è mancata la concorrenza, l’opzione exit; bisognerebbe introdurre l’opzione voice, però il nostro è un paese dove manca del tutto la trasparenza. Pensiamo per esempio, a una situazione come quella dei ghisa di Milano, dei vigili urbani: quanti sono in strada e quanti in ufficio e perché. Non lo sappiamo perché non c’è trasparenza e saperlo invece potrebbe contribuire a migliorare l’organizzazione, a rendere evidenti i motivi di alcuni disservizi. Il civil servant, per dirla all’inglese, deve essere totalmente al servizio del pubblico, senza alcun tipo di privacy, nel segno di una totale trasparenza rispetto al lavoro che svolge, ai possibili interessi, a eventuali contiguità con sistemi di potere.
Ma ogni volta che si solleva il problema, si alzano anche gli scudi a protezione”.
Le domande del pubblico in sala sono molte; il paragone con Londra solleva molti interrogativi. Micheli spiega: “Lì, l’autonomia, cioè la capacità di non legarsi a poteri politici e finanziari è un valore e corre di pari passo con la capacità di ottenere fondi; lo studio per migliorare l’efficienza non si traduce in tagli di personale, ma nell’ottimizzazione di tutte le fasi di lavoro, che porta un risparmio di fondi da reinvestire eventualmente nell’attività”. Ma in paese come l’Italia dove la selezione è spesso viziata e la carriera legata prevalentemente all’anzianità, come si può cambiare rotta? Ichino non nasconde l’insofferenza: “La paranoia dell’efficienza non basta a giustificare la totale assenza di cultura della valutazione. Ce ne accorgiamo ora, direte. La battaglia da noi è iniziata tardi, certo. In Svezia dalla metà degli anni 70 il principio della total disclosure è legge anche per le aziende privati. Mettiamola così: abbiamo il vantaggio degli ultimi, cioè possiamo far tesoro dell’esperienza di tutti quelli che ci hanno preceduti”.
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