Il pianto di mio fratello Maurizio

24 Febbraio 2007

Uscirà fra qualche settimana Il fratello comunista (Garzanti), l’ultimo libro di Giovanni Ferrara, una specie di testamento spirituale. Ne anticipiamo un brano.Un pomeriggio d´estate, seduto al tavolo presso la finestra che dà sulla strada e sul porto e, oltre il molo, sul mare disteso fino ai Monti della Tolfa, scrivevo e leggevo tranquillo. Alzavo ogni tanto gli occhi dalle scritture che avevo davanti, e guardavo lo specchio d´acqua del porto, immobile come sempre, il paese vecchio, la Rocca Spagnola. (…) «Giovanni!», sentii chiamare dalla strada. Non vi badai subito, concentrato com´ero, ma poi il richiamo si ripeté, non più forte, forse anzi più basso e ne fui attratto. Riconobbi la voce di Marcella, mia cognata. In quei giorni, mio fratello Maurizio e sua moglie Marcella erano a Porto Ercole, nella loro casa vicinissima alla nostra. Ci si vedeva praticamente ogni mattina, quando s´andava al mare insieme, alla Feniglia o alla Giannella, da Marisa o da Ulisse. M´alzai e m´affacciai alla portafinestra. (…) Non mi lasciò il tempo di chiedere e disse: «Per favore, vieni da Maurizio, forse solo tu puoi parlargli, ti prego». Si voltò, risalì lentamente la brevissima strada fino al suo cancello, e sparì (…).Dovevo parlare con Maurizio, ma perché? Com´era possibile che Marcella chiedesse un aiuto per parlare con Maurizio – loro due che da più di cinquant´anni, dagli incontri furtivi nella Roma clandestina dei tedeschi e dei fascisti, avevano sempre parlato, e talvolta, pensavo, magari anche gridato, come accade nei legami sorti dall´amore, lunghi tanto da tendersi, inevitabilmente, e torcersi e annodarsi fin quasi allo strappo, poi sempre evitato? Eppure, mentre rientravo nella stanza e m´avviavo alla porta di casa, mi pareva come se Marcella avesse, come si dice, gettato la spugna.

Ma quali argomenti potevo avere io, che valessero più dei suoi? (…) Per rasserenare Maurizio con le parole, non credevo d´essere la persona più adatta. Forse per qualche caso insignificante, in cui la mia cosiddetta saggezza poteva giovare. Però quella chiamata non era rivolta a una saggezza quotidiana, sembrava piuttosto dire e quasi imporre: «Ora tocca a te».Entrai nella cucina. Marcella era sparita, sentii i suoi passi al piano di sopra. Maurizio doveva essere nella stanza accanto, “il salotto”, la stanza con lo scaffale grande, il televisore, il divano-letto le poltroncine e la poltrona grande di legno, con lo schienale mobile, detta “la poltrona dello zio Antonio”, un resto delle varie minime eredità lasciate dai tanti fratelli e sorelle di nostra madre (ora, quella poltrona l´ho io, è sempre a Porto Ercole, resiste bene al tempo).Maurizio, era lì, sulla poltrona di zio Antonio. Volse il viso per guardarmi, aveva gli occhi rossi e le guance umide, teneva in mano un fazzoletto bagnato e ripeteva il gesto che, ricordai, faceva quando morirono nostro padre e poi nostra madre, e lui piangeva: passava il fazzoletto pieno di lacrime appallottolato dalla mano destra alla sinistra e poi dalla sinistra alla destra, e ancora e ancora, e così via. Chiamò il mio nome, a voce bassa, poi riprese a guardare davanti a sé, chinando un poco il capo, come per nascondere il viso.Sedetti sulla poltroncina accanto al televisore spento, e stavo zitto. Lui mi guardò con occhio assente, abbozzò un sorriso ma non diceva nulla.

Fu quello un momento del tutto nuovo, per me. Non m´ero mai trovato accanto a mio fratello così, in silenzio, guardando lui che piangeva tacendo. (…) A tratti, nel suo silenzio, Maurizio mi fissava con uno mite sorriso come d´imbarazzo. Forse non per i pensieri che lo tormentavano e non si decideva a rivelare, ma piuttosto per quel pianto che rivelava una stanchezza infinita, quasi la rinunzia al portamento virile che in lui tanto spesso era imperioso. Sparita l´eterna gioventù del suo spirito testardo e coraggioso, nella catastrofe d´una vecchiaia morale e fisica piombata su di lui inesorabile. Appariva esaurito, quasi non avesse più parole, come se il colloquio con Marcella, forse lungo e certamente agitato, lo avesse stremato e ammutolito. Doveva parlare con me ma riusciva solo a piangere e, a tratti, frenando il pianto, a sospirare come se riflettesse e tornasse a riflettere e riflettere ancora, ostinatamente e invano. Non sapevo che fare, che dire, poi un pensiero mi colse, semplice, nudo: «È crollato». Ma in che senso, perché? Con uno sguardo lui mi capì, e con voce sommessa ma chiarissima disse: «Caro mio, è tutto finito, finito».Tacemmo ancora. Lui sembrava fissare un quadro appeso sopra il televisore, una litografia che aveva portato dalla Russia quando tornò dal suo lavoro d´inviato dell´Unità a Mosca. Una litografia che in certo senso ricordava quel famoso disegno di Steinberg, dove in prospettiva è rappresentata l´intera America, dalle vie di New York fin laggiù laggiù, la Cina.

Ma questa nella sua ingenuità popolare aveva ben altro senso: si vedeva tutta l´Urss, campagne e città, monti, fiumi e boschi, ciminiere e fabbriche, campi di grano e laghi, il mare intorno e lontano e sopra tutto un quadrimotore Tupolev che sorvolava trionfante l´intera Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. La sintesi d´un mito della terra e della Rivoluzione, della tradizione e della modernità. Una litografia minuziosa e allegra, con i suoi colori chiari e una sorta d´ottimismo – non un solo angolo oscuro, non un solo successo proletario trascurato. Ero abituato da anni a vedere quell´immagine strana e familiare, senza quasi più notare in alto, tra i cieli azzurri e di bianche nuvole, in un ovale intrecciato di frutta e fiori, i tre profili: Marx, Lenin, Stalin.«È tutto finito, tutto cancellato, non resta niente, niente di niente», così disse. S´asciugò di nuovo gli occhi, ormai il gesto era automatico, non aveva più lacrime. «È stato tutto inutile», riprese. «Non ha significato niente, non c´era niente che valesse la fatica… tutta la vita… una fatica inutile… Marcella dice che non è vero, non è del tutto vero, ma sa benissimo che non è così, che è vero, è inutile discutere. Tutta una vita, sessant´anni dietro a questo lavoro, a questo mondo, a questo scopo, non c´è rimasto niente. Anzi, non c´era niente neanche prima, forse. Io l´ho sentita venire, questa fine, è una specie di morte, ma soltanto ora, non so perché, ho visto le cose in faccia.

Ma è peggio della morte, quella riguarda le persone, o anche milioni di persone, ma sempre persone, questa è come la morte del significato di ogni cosa, ogni cosa ha perso il suo significato, restano solo quelli là, quelli che hanno sempre avuto ragione! Non è che prima avessero torto e poi sono riusciti ad aver ragione, hanno sempre avuto ragione, noi abbiamo sempre avuto torto, abbiamo sbagliato tutto fin dall´inizio, fin dal ´17!». È strano, sono passati almeno dieci anni, il fratello Maurizio, il mio fratello comunista è morto, e così Marcella, la mia cognata comunista, tutto quel mondo è perduto, forse non interessa più nessuno e io stesso ne sono ormai quasi dimentico. Eppure, ricordo tutto di quel pomeriggio, quasi ne avessi fatto un verbale, e ora lo rileggessi dentro di me. Come se quella conversazione – niente di straordinario, in fondo, cose scontate, tipiche della tragica banalità che è del nostro tempo – abbia segnato la fine non soltanto della sua storia, ma in qualche modo anche della mia.

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