Il successo del No è la vittoria della Costituzione repubblicana che supera dopo quasi cinquantanove anni dalla sua approvazione a larghissima maggioranza nell’Assemblea Costituente (22 dicembre 1947) la prova del consenso popolare cui è stata sottoposta per la prima volta (26 giugno 2006). Da allora si sono avvicendate molte generazioni ma la Costituzione si è dimostrata capace di innalzare un arco sotto il quale trascorsero e trascorrono padri, figli e nipoti in epoche molto diverse da quella in cui si svolse l’opera dei padri fondatori. Addirittura questo succedersi di sei decenni ha visto la scomparsa delle forze politiche che presiedettero alla elaborazione della Carta (la Democrazia Cristiana, il Partito Liberale, il Partito Socialista, il Partito Comunista sopravvissuto in eredi che rifiutano di essere chiamati postcomunisti), come scomparve nel primo decennio dell’ottocento quel partito federalista così decisivo nel varo della Costituzione statunitense del 1787. Eppure, se i partiti fondatori passano, la Costituzione rimane e affida agli innesti maturati nella cultura dell’emendamento la sua vitalità, fatta di nova et vetera, di nuovi rami sul vecchio albero che nessuna democrazia matura oserebbe sradicare. E’ a questa vivente continuità che si appellava Giuseppe Dossetti allorché nel 1994 ammoniva: principi da mantenere, istituti da modificare. E’ a questi lineamenti essenziali della Carta che nel suo messaggio d’investitura si è ancorato il Presidente della Repubblica, lineamenti che rinveniamo nella prima e nella seconda parte della Costituzione.Dalla esperienza convulsa iniziata con l’invocazione alle grandi riforme già negli anni ottanta abbiamo ormai appreso più di una lezione che conviene fissare in pochi caveat.Innanzitutto dobbiamo evitare riforme che modifichino uno o più principi supremi della nostra Costituzione, pervenendo perciò a quella Costituzione incostituzionale, così definita da Giovanni Sartori con una formula paradossale ma vera; tanto più che secondo la Corte costituzionale nemmeno con il procedimento previsto dall’art.138 Cost.
si possono modificare tali principi; se mai bisognerebbe attivare a monte o a valle dei controlli in grado di impedire la sottoposizione a referendum di modifiche incoerenti con i principi supremi.In secondo luogo bisogna rinunciare all’uso politico della revisione costituzionale come dall’inizio degli anni ottanta si è più volte tentato di fare; pertanto devono escludersi modifiche a maggioranza assoluta dei componenti delle Camere, tra l’altro facilmente raggiungibile con sistemi elettorali maggioritari o con premi di maggioranza . Per questa via si raggiungono quattro obbiettivi: si condizionano gli emendamenti ad un consenso largo come nella Costituzione statunitense e nella Legge Fondamentale tedesca; si garantisce il carattere omogeneo del testo da sottoporre eventualmente agli elettori; si assicura la superiorità e rigidità della Costituzione, non suscettibile di molteplici mutazioni come le disposizioni di una legge ordinaria; si esige quel carattere puntuale della revisione, che esclude le megariforme tentate nella troppo lunga transizione istituzionale. Né ci si dica che queste esclusioni contrastano con il carattere necessariamente “organico” della riforma. Come è noto, è questa la critica che l’on. Fini muove al programma dell’Unione, accusato di mancare di una concezione globale della revisione. A questo proposito va detto che l’impostazione della “riforma organica”ha confuso le idee poste a base delle leggi istitutive delle Commissioni Bicamerali a partire dalla Commissione De Mita-Jotti per finire alla megariforma della maggioranza berlusconiana.
Un’impostazione sbagliata non solo perché conduce alla modifica di decine e decine di articoli della Costituzione, ma perché finisce inevitabilmente per rifluire nel risultato di una Carta “nuova” che sostituisce la “vecchia”. L’organicità sostenuta dall’on. Fini è consistita soprattutto nel legame ritenuto necessario tra l’accettazione del federalismo ed il rafforzamento dei poteri del Primo ministro. Ma questo legame è basato su un equivoco: infatti la forma federale dello Stato è perfettamente compatibile con la forma di governo parlamentare come dimostrano gli esempi della Germania, del Belgio e della stessa Spagna. Non c’è quindi bisogno del superpremier (residuo del presidenzialismo di Almirante); è sufficiente avere un Presidente del Consiglio dotato di poteri nel solco del modello Westminster (che non è quello della riforma bocciata dai cittadini); o dell’altro modello del Cancellierato tedesco e del Presidente del governo spagnolo, adattati alla consistenza dei poteri di garanzia italiani. Tanto più che il federalismo solidale e cooperativo al quale aspiriamo si sviluppa all’interno di uno stato unitario, anche se non centralista.E’ per questo che la riforma del titolo V nel 2001, seppure sbagliata nel metodo ed in taluni suoi contenuti in tema di riparto di attribuzioni tra Stato e Regioni, non è apparsa al corpo referendario (che l’approvò nell’autunno del 2001) come una violazione di principi supremi ma piuttosto come uno sviluppo non incoerente con l’art.5 Cost.
a proposito di autonomia (dal regionalismo al federalismo). Stavolta, invece, il popolo italiano ha avvertito che si consumava uno strappo irrimediabile, una discontinuità verso l’ignoto, un disconoscimento della Carta fondamentale del 1947. Il nobile rifiuto del 26 giugno non conduce ad una mummificazione del testo, ma lo riconsacra aggiungendo il monito ad adottare soltanto emendamenti puntuali frutto di ponderata riflessione e di ampio consenso. Assecondando anche una proposta contenuta nelle prime pagine del programma dell’Unione si deve cominciare dall’elevazione del quorum dell’art. 138 Cost. ad una maggioranza più elevata per la revisione costituzionale. Sarà questo il test per accertare l’esistenza di una volontà largamente condivisa per le altre, successive, omogenee modifiche. Ciò che importa è evitare deroghe all’art.138 come quelle che aprirono la porta alle due bicamerali (1992-1998) dotate di poteri per proporre la “riforma organica”.Rinunziare decisamente a simili espedienti, condannati da gran parte dei costituzionalisti, significa riconoscere la validità dell’art.138 per l’adozione delle modifiche necessarie nei termini e nei limiti sopraenunciati. Dunque né Costituenti né Convenzioni con poteri redigenti: tra l’altro gran parte degli elettori si sentirebbe tradita se la legislatura ricominciasse con il tormentone delle leggi costituzionali in deroga al procedimento normale di revisione. Non è inadeguato dunque il 138, ma soltanto ne è stato fatto cattivo uso nel 2001 e più ancora nel 2005.
Più in piccolo questo aggiramento dell’art.138 riproduce la deviazione della classe politica che ha scaricato sulla Costituzione del 1947 i suoi errori e la sua incapacità culturale (di cultura costituzionale) per prendere le giuste misure alla transizione, già in larga parte superata con la creazione del “fatto maggioritario”. Nulla impedisce di procedere per le vie ordinarie (Convenzioni, Commissioni preparatorie per l’elaborazione di intese) ad approfondimenti ed a verifiche di consensi in fieri, soprattutto in relazione alla legge elettorale.Ma prima bisogna comprender il senso storico dell’evento che abbiamo contribuito a realizzare il 25-26 giugno di quest’anno di grazia.
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