Pubblichiamo l’intervento dell’ingegnere Carlo De Benedetti al convegno “Un’Italia competitiva e solidale per affrontare le sfide del XXI secolo”. La tavola rotonda, promossa da Idee, il pensatoio dei Democratici europei, ha visto avvicendarsi al microfono, oltre a De Benedetti, il sindaco di Roma Walter Veltroni e il presidente della Margherita Francesco Rutelli.
Innanzi tutto vi ringrazio di avermi invitato qui a parlare delle priorità del XXI secolo. Lo prendo in qualche modo come un attestato di stima. Anche perché ormai io ho superato i 70 anni e, anche se naturalmente spero di andare ben oltre i cento, è almeno probabile che gran parte della mia vita si sia svolta nel secolo passato. Il XXI, Francesco (Rutelli) e Walter (Veltroni), è il vostro secolo. La prima scommessa, del resto, per chi vuole un’Italia protagonista del futuro è quella di ringiovanirne la classe dirigente, di affidare alla vostra generazione il ruolo di guidare il Paese.Ma, visto che mi avete invitato, qualche consiglio, al di là del ricambio generazionale, proverò a darlo. E permettetemi in questo senso di partire da una riflessione che tanto mi ha guidato nei miei anni giovanili. Una volta chiesero a Gaetano Salvemini: “Ma, insomma, cos’è che davvero serve all’Italia?”.
Lui rispose: “Più libertà e un po’ di bene per tutti”. E’ una frase che mi è tornata in mente di recente leggendo un articolo di Anthony Giddens, che voi ben conoscete per essere uno dei padri del New Labour: “Nel XXI secolo – dice Giddens – la vera sfida è quella di costruire un Paese con il massimo grado di competitività unito al massimo grado di giustizia sociale”. E’ qualcosa di non molto diverso da quello che diceva Salvemini. Ed è quello, io credo, che dobbiamo avere in mente tutti noi che vogliamo un’Italia in grado di reagire alla logica del declino che la sta trasformando in un Paese sempre più marginale negli equilibri mondiali.Come si rilancia, allora, la competitività del sistema rafforzandone contemporaneamente gli elementi di giustizia sociale? Non tocca a me, per carità, fare programmi. E mi sembra che tra voi ci siano fin troppe teste impegnate a farli. Ma al primo punto delle priorità oggi non può che esserci l’education. Nel nuovo secolo una nazione non sarà prospera se non primeggerà nell’educazione e nella formazione dei suoi giovani e dei suoi lavoratori. Questo significa adottare i migliori standard mondiali nella scuola e nelle università, costruire un sistema di formazione continua che funzioni davvero, sviluppare la creatività della nostra gente. Oggi la Cina e l’India producono 4 milioni di laureati all’anno. Se vogliamo competere, dobbiamo evidentemente sviluppare le potenzialità di ogni nostro singolo bambino e di ogni singola bambina, dobbiamo favorire il talento di ogni singolo giovane, dobbiamo aiutare ciascuno a dare il meglio di sé.
La mia, la vostra, deve essere l’ultima generazione che ha permesso che si sviluppassero solo alcune potenzialità di alcuni individui, e deve essere la prima a sviluppare tutte le potenzialità di tutti i cittadini.L’Italia è ancora un Paese di troppe poche opportunità. Servono più opportunità e più responsabilità. Vanno liberate e alimentate energie nuove. Servono riforme, riforme, riforme. Riforme per migliorare la nostra scuola e aprire al mondo le nostre università, ma anche per alleggerire il Paese dalle tante rendite di posizione e per liberare l’accesso ai mercati. Solo così collocheremo le nostre produzioni in quella fascia di alta qualità, che oggi è l’unica che ci permette di essere competitivi.A più riprese la Fondazione Rodolfo Debenedetti, sotto la guida del professor Tito Boeri, ha documentato come le liberalizzazioni effettuate in Europa abbiano portato a forti incrementi di produttività, stimolando la crescita economica. Per l’Italia il messaggio non potrebbe essere più chiaro: cresciamo poco perché troppi nostri mercati godono di qualche forma di protezione dagli effetti della concorrenza. Bisogna riprendere dunque il processo di liberalizzazione da troppo tempo interrotto.Il problema, mi direte, è come. Perché in questi anni si è dimostrato che le liberalizzazioni si scontrano con interessi particolari molto forti, mentre i benefici per i consumatori sono spesso avvertiti come solo ipotetici. Ecco allora che bisogna configurare l’operazione come uno scambio.
Ne hanno trattato ottimamente alcuni esperti in un libro, “Oltre il declino”, che è nato da un convegno organizzato proprio dalla Fondazione Rodolfo Debenedetti. Per superare le resistenze, per esempio, dei lavoratori coinvolti nelle operazioni di ristrutturazione andrà configurato un sistema più generoso di ammortizzatori sociali. E’ un costo, è evidente. Ma è un costo che vale la pena sostenere se il risultato è quello di sbloccare interi settori della nostra economia. Un altro principio di cui tener conto se si vuole davvero far ripartire la liberalizzazione è quello di centralizzare il più possibile la promozione del processo. Le amministrazioni locali, infatti, come ha sottolineato Guido Tabellini, sono più facilmente influenzabili dagli incumbents in cerca di protezione. Una tesi confermata dall’esperienza degli Usa dove gli Stati hanno rallentato la deregolamentazione mentre il governo federale l’ha spinta e sostenuta. E gli Stati Uniti ci danno un altro suggerimento. Lì, negli anni 70-80, le liberalizzazioni sono spesso partite dalle autorità indipendenti. Non è un caso. Perché le Authority sono più attente alle ragioni dell’efficienza che a quelle dello scambio politico. Potrà essere utile anche da noi, perciò, nella prossima legislatura, coinvolgere le autorità indipendenti nel processo di liberalizzazione.Ma è chiaro che non vi sarà autorità indipendente che vi sottrarrà alla responsabilità di fare le riforme. Voi, l’Ulivo, il partito democratico o come diamine vi vorrete chiamare, dovrete essere il partito delle riforme, il partito che ha il coraggio e la forza di fare le riforme.
Se, al contrario, vi rassegnerete a subire i tanti veti dei tanti Ghino di Tacco che bloccano questo Paese, se vi lascerete condizionare da questa o quella lobby, se non saprete guardare al futuro di tutti perché frenati dal presente di alcuni, allora avrete fallito la vostra sfida di governo. Per il partito democratico significherebbe una fine prematura e, ciò che è peggio, anche l’Italia avrà fallito con voi. Lasciatemi chiudere con una citazione. E’ di un uomo politico della vostra generazione. E’ di quel Gordon Brown che si prepara a prendere il testimone da Tony Blair alla guida del Regno Unito (anche lui, come voi, ha dovuto aspettare un po’, e forse, per la verità, dovrà farlo ancora). Ecco l’obiettivo di Gordon Brown, annunciato all’ultimo congresso del New Labour: “Una grande società Britannica in cui una nuova generazione di individui possa puntare più in alto possibile secondo le proprie capacità, in cui tutti siano messi in condizione di realizzare i propri sogni, in cui lo spirito imprenditoriale britannico venga apprezzato come si deve; una società che riconosca che siamo allo stesso tempo cittadini e consumatori, che la pubblica piazza è meglio del mercato, che siamo tutti uniti nella condivisione dell’impegno verso un’etica che sia al servizio del Paese e del suo benessere”.Lascio a voi tradurre queste parole in un programma politico che sostituisca all’orgoglio britannico quello italiano. Ma credo proprio che quelli indicati da Gordon Brown possano e debbano essere i nostri stessi obiettivi.
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