L’Italia, il mutamento di regime e gli shock asimmetrici

07 Giugno 2005

“L’alternativa è tra declino e sviluppo. Il declino è evitabile. Lo sviluppo è possibile. I segni del declino si sono manifestati per tutti gli anni ’90. In una economia globale gli indici non possono restare locali. Nella nuova geoeconomia del mondo non conta tanto la specifica velocità di corsa di un singolo paese. Ma quella relativa agli altri paesi competitori, nella stessa gara globale. Gli indicatori più significativi non si sviluppano dunque più solo in senso verticale e in dimensione nazionale. Va aggiunta, in orizzontale, la dimensione internazionale, che sta diventando sempre più importante. Nel corso degli anni ’90, la parte maggiore e più significativa degli indici internazionali marca il progressivo spiazzamento competitivo del nostro Paese, rispetto agli altri paesi concorrenti. Non possiamo continuare così, fatalisticamente. Possiamo cambiare politica, invertire la tendenza, passare dal declino allo sviluppo. E’ già successo nel dopoguerra: un nuovo miracolo-economico è possibile. Per le ragioni e con le azioni che seguono.”Così si esprimeva, nel luglio 2001, il Ministro Tremonti nelle “sintesi e conclusioni” all’ambizioso Documento di Programmazione economico-finanziaria del nuovo governo di centrodestra. Prima del periodo citato si legge: “Questo DPEF si sviluppa sull’asse del tempo, dal 2001 al 2006. Sono i 5 anni della XIV legislatura. Una legislatura in cui il nostro paese può, anzi deve decidere, il suo futuro”. Lo sta decidendo: in peggio.

Non ci si può sottrarre a questa amara conclusione. Nel Documento il tasso di crescita programmato per il periodo 2002-2006 era indicato nel 3,1%. Se le previsioni dell’OCSE si avvereranno, tra il 2002 e il 2005 la crescita effettiva risulterà dello 0,3% annuo, con la conseguenza di allontanare ulteriormente l’Italia dalla crescita europea. Lo spiazzamento competitivo non si è arrestato ma ha avuto un’accelerazione. La situazione della finanza pubblica si è invertita e il sentiero su cui si evolve è orientato verso la destabilizzazione. L’occupazione ha ancora continuato ad aumentare, ma nel 2004 nel Mezzogiorno è diminuita e la produttività annua per occupato, per la prima volta dal dopoguerra, si sta riducendo. Le “azioni” di politica economica si sono risolte in un fallimento. Non si può dire che il governo sia stato colto di sorpresa: era avvertito della situazione dalla sua stessa analisi. Nessun evento esterno ha colpito l’Italia in particolare. Dopo le iniziali difficoltà, a partire dalla seconda metà del 2003 l’economia mondiale si è ripresa e il 2004 ha segnato la crescita più vigorosa da quasi trent’anni. Nell’autunno del 2001, in sede di presentazione della Legge Finanziaria e nella stessa Relazione Previsionale e Programmatica, anche l’extradeficit da 25.500 miliardi di lire denunciato da Tremonti appariva in gran parte riassorbito. A pagina 41 si può infatti leggere che nel 2001 l’indebitamento netto delle Pubbliche Amministrazioni “dovrebbe attestarsi intorno ai 27.100 miliardi di lire, pari all’1,1% del PIL, con un miglioramento, rispetto alla precedente valutazione, di 17.400 miliardi di lire”.

L’ultima stima del disavanzo 2001 fatta dal governo Amato era stata di 19.500 miliardi, pari allo 0,8% del PIL. Nel 2005 il disavanzo supererà con ogni probabilità i 100.000 miliardi. A partire dal 1999, con l’introduzione della moneta unica europea, l’economia italiana è diventata una regione di una grande economia, Eurolandia, entrando in un nuovo regime di politica economica. Com’è ampiamente noto, in questo regime i singoli stati non dispongono più di una politica monetaria autonoma, né della possibilità di influire sul tasso di cambio nominale, che tra i paesi che adottano l’euro risulta reciprocamente fisso. Inoltre, la sovranità della politica fiscale è vincolata nei saldi del bilancio pubblico e nell’ammontare del debito dalle regole del Patto di Stabilità. In questo contesto un paese colpito da uno shock asimmetrico sfavorevole (cioè da un evento negativo che investe unicamente la sua economia e non quelle altrui) rischia, se non ha le finanze in ordine, di non avere a disposizione strumenti per cercare di attenuare rapidamente i problemi che sorgono nell’economia.Questo mutamento è stato epocale. Considerando che l’elevatezza del debito, indipendentemente dal Patto di Stabilità, impedisce all’Italia l’attuazione di politiche fiscali espansive (a meno di non voler deliberatamente scegliere la via della crisi finanziaria pubblica), il mutamento è equivalso all’abbandono di tutti i tradizionali strumenti di controllo dell’economia dal lato della domanda.

Dopo gli shock all’inizio degli anni Settanta del secolo scorso, le politiche monetarie accomodanti, i deprezzamenti della lira e il ricorso al bilancio pubblico sono stati per il nostro paese i mezzi utilizzati per rinviare al futuro le difficoltà che si addensavano nella sfera economico-sociale. Le politiche monetarie hanno iniziato ad essere più restrittive negli anni Ottanta e le politiche fiscali negli anni Novanta. L’ultimo grande deprezzamento della lira è stato quello tra il 1992 e il 1995, che ha consentito di riequilibrare il saldo degli scambi con l’estero e di ridare fiato alle esportazioni e all’attività economica. Senza questo deprezzamento il nostro paese non sarebbe stato in grado di entrare nella moneta unica. L’Italia ha poi iniziato a non usare più lo strumento del cambio alla fine del 1996, quando la lira è rientrata nel Sistema Monetario Europeo. Il fatto che in passato vi sia stata la necessità di utilizzare sistematicamente le politiche fiscali espansive e i deprezzamenti del cambio nominale per uscire dalle difficoltà significa che il nostro paese ha sedimentato al suo interno problemi irrisolti di natura reale. Tra il 1987 e il 1992 è stata attuata la politica di mantenere il cambio nominale fisso per “costringere” all’aggiustamento e alla reciproca compatibilità i comportamenti interni. Il tentativo ha avuto l’esito che sappiamo: nel settembre del 1992 la lira è stata costretta ad uscire dallo SME e, libera di fluttuare, si è rapidamente deprezzata.

Questo episodio ricorda che una pur ferma applicazione della disciplina non sempre obbliga all’aggiustamento: la regola infatti può saltare. La rincorsa all’euro è stata la risorsa politica che ha consentito la stabilizzazione dell’inflazione e l’avvio del risanamento delle finanze pubbliche. Adottando l’euro ed il connesso nuovo regime di politica economica si è implicitamente accettata la possibilità che, in un certo punto del tempo, l’Italia si sarebbe potuta trovare di fronte ai propri problemi interni senza più la via d’uscita di facili rinvii. Questo momento è arrivato sotto la spinta di un grande shock asimmetrico di origine interna: i quattro anni di governo del centrodestra. A questo shock se ne stanno aggiungendo altri: le divisioni del centrosinistra e la proposta della Lega Nord, un partito al governo, di abbandonare l’euro per sostituirlo con la dollarizzazione dell’economia, proprio come un bel paese sudamericano. Ciò non deve sorprendere: sono gli inevitabili riflessi della società italiana e delle sue tante frammentazioni che la politica utilizza e non riesce o non vuole dominare. Il dualismo economico tra il Meridione e il resto d’Italia, l’abnorme quota di lavoratori autonomi, le segmentazioni ideologiche tramandate dal passato, la crescente separazione tra i laici e i cattolici, l’estensione del sommerso, dell’evasione fiscale e della corruzione, il dominio, in diverse zone, della criminalità organizzata, lo sgretolamento della classe dirigente – oltre alla normale complessità di gestione di una società industriale, stretta tra la globalizzazione, l’invecchiamento della popolazione e il disincanto dei cittadini.

Nel 1992 il più vistoso campanello d’allarme della crisi, servito a coagulare la necessaria volontà politica per superarla, è stato il rapidissimo deprezzamento del valore esterno della lira. Con l’euro i campanelli d’allarme saranno la procedura per deficit eccessivo e l’aumento di alcuni centesimi di punto del differenziale di interesse tra i titoli di stato italiani e quelli tedeschi. Basteranno? E’ dall’interazione tra le difficoltà dell’economia e quelle della politica che nasce il declino e, con esso, il pericolo di andare incontro a fasi ancor più difficili.

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