Vivere la legalità

19 Maggio 2005

Che cosa significa vivere la legalità? E´ la domanda centrale contenuta in una lettera che il procuratore della Repubblica di Pistoia Tindari Baglione ha inviato agli allievi delle scuole superiori della città. Il tema, al centro anche di un dibattito con i ragazzi, è stato il saluto appassionato del procuratore a Pistoia, città in cui ha lavorato per anni, e che ora lascia per andare a Roma in Cassazione. “Spesso il mondo della politica ha scelto di coltivare più gli interessi particolari che il bene comune, mentre servono leggi condivise”, ha detto il procuratore: “Vivere la legalità significa condividere la bellezza della democrazia come insieme di diritti e di doveri”. Ecco perché a tutti i ragazzi ha inviato con la lettera un contributo firmato dal procuratore di Firenze Ubaldo Nannucci, dodici anni fa. “Allora – spiega Tindari Baglione nella missiva – Nannucci era sostituto procuratore, mio vicino di stanza … e con lui ho condiviso ricerche, esperienze, indagini, soddisfazione, successi e insuccessi per tanti, tantissimi anni”.
Dopo dodici anni cosa è cambiato in meglio o in peggio nel nostro paese? E’ sufficiente non fare del male o, viceversa, le norme non scritte, ma fondamentali, poste a presidio del vivere insieme, ci impongono comportamenti attivi di solidarietà e di partecipazione alla crescita nostra e delle istituzioni?
—–Ecco il testo di Ubaldo Nannucci
Se si propone un tema come questo, non è senza ragione. E’ forse perché oggi vivere nella legge non è affatto facile e scontato, o come si potrebbe pensare naturale e ovvio per un galantuomo.

Rispettare le leggi può oggi, in chi opera nella società, comportare dei problemi. Perché l’osservanza non è costume generale, né abitudine spontanea, né virtù sempre apprezzata. Molto spesso il rispetto della legge viene avvertito in sede sociale a volte come segno di dabbenaggine, a volte come autolesionismo puro. Dove l’inosservanza e la regola, l’uomo giusto dsi trova in condizione di minorità frustrante. E viene dai fatti posto dinanzi a una alternativa odiosa: o imiti le furbizie degli altri, e aderisci alle prassi in voga commettendo anche tu le scorrettezze che vedi fare agli altri, e giustificandoti dinanzi alla tua coscienza col dire che è necessario adeguarsi per sopravvivere, oppure accetti di venire spesso discriminato nelle occasioni di lavoro, nella vita professionale, negli affari.
Questo malessere sociale nel quale siamo immersi come individui, si raccorda per canali, non chiari al malessere che affligge la nostra intera vita nazionale: alludo alle cronache giudiziarie che ci rivelano quanto esteso e quanto profondo sia il coinvolgimento di fonti illecite di finanziamento (alternative, intendo, rispetto al finanziamento dello Stato introdotto con la legge n. 195 del 2 maggio 1974 che meriterebbe un comento appositamente a lei dedicato; che condurrebbe a valutazioni molto severe sulla buona fede dei suoi estensori e di chi redasse la redazione che l’accompagnò), o attingendo a risorse di enti pubblici o percependo tangenti da soggetti privati, e dando così vita a una straordinaria varietà di comportamenti illeciti che hanno precisi nomi e cognomi nel codice penale, dalla corruzione alla concussione, dall’abuso patrimoniale al falso in bilancio, dal peculato all’illecito finanziamento; una situazione largamente intuita e un sospetto largamente diffuso da gran tempo nella società civile, ma che oggi sembra scuotere dalle fondamenta il paese per la prepotenza con cui il fenomeno è emerso, per le altissime cariche ricoperte nello Stato da persone investite dalle inchieste, per le dimensioni impreviste e l’estensione capillare.

Quando un segretario di partito si dimette perché non può più pagare gli stipendi, ci rivela senza volerlo come il ricorso al finanziamento al nero fosse essenziale per la vita stessa del partito. In ciò sta la causa dell’enorme clamore sollevato dalle inchieste che si sono sviluppate in tutto il paese in quest’ultimo anno. Si avverte un profondo sconcerto nel constatare de visu, che la classe che ha governato per decenni questo paese, non era moralmente affidabile. V’è quindi un malessere individuale, che ciascuno avverte nel suo privato; e v’è un malessere sociale che tocca le istituzioni nel suo complesso. Sono due sintomatologie parallele, tra le quali corre però uno stretto rapporto; perché non può esservi correttezza di comportamenti in sede sociale, se non vi è limopidezza ai vertici delle istituzioni.
Ed è a questo punto che vbengono prospettate di questa realtà due letture diverse, due, due terapie opposte:
I) si dice e si legge: non si può andare avanti così; bisogna uscire da Tangentopoli; occorre una soluzione politica per porre fine allo stillicidio degli arresti; non si può tenere il paese sotto l’incubo di questi processi per dieci anni; le imprese sono bloccate; non si fanno più gare; l’edilizia è ferma; insoma Annibale è alle porte. Si giunge a chiedere ai giudici di proporre loro una soluzione politica.
Dal lato opposto invece si afferma:
II) la magistratura segua il suo corso; chi ha sbagliato ne deve rispondere; non è accettabile che col pretesto della soluzione poltica si dia un colpo di spugna a venti anni o quasi di malcostume, quanti ne sono passati dalla legge sul finanziamento dei partiti (n.195 del 2 maggio 1974)
Quale sia la mia opinione ha scarasa importanza (forse ve la immaginate)
Il punto è un altro.

Ed è quello di stabilire se si vole riconoscere fino in fondo quali sono le cause profonde della malattia scoperta. E’ di verificare se si ha il coraggio di ammettere che la patologia che oggi si è manifestata è il frutto di una lunga incubazione, dai sintomi altrettanto preoccupanti. V’è un malesere emerso; e v’è un malessere occulto, di cui tuttavia la società ha sofferto lungamente. Ricordiamoceli, alcuni di questi sintomi:
a. il problema del lavoro giovanile; la difficoltà del primo impiego; la ricerca affannosa, spesso umiliante, di un posto di lavoro; la paralisi delle università con laureati altamente specializzati che non riescono a trovare un posto neppure come insegnanti delle medie; o la totale assenza di ricerca scientifica, irresponsabile atto di autolesionismo che ci fa dipendere totalmente da altri paesi; il sottosviluppo endemico del meridione, su cui prosperano poteri criminali che hanno spesso sopiantato lo Stato;
b. il disastro della sanità: a costi elevatissimi corrispondono servizi precari, sovraffollamento; con un flusso di pazienti che migrano verso il nord in cerca di un posto letto meno indecoroso; le dimissioni dell’amministratore della maggiore Usl toscana sono la fotografia dell’ingovernabilità del sistema ospedaliero;
c. il problema degli anziani, con pensioni di sopravvivenza dopo una vita di lavoro, con il dramma connesso di chi non può assistere un genitore infermo, le rette pazzesche delle case di cura, la difficoltà estrema di trovare un posto di assistenza;
d.

il sistema fiscale, meglio definibile sistema di ingiustizia fiscale, con aliquote elevate che colpiscono il reddito fisso; con condoni permanenti che hanno istituzionalizzato il sistema della tangente di stato sui resti e sulle evasioni fiscali, autentica beffa per i contribuenti onesti; che vedono ridicolizzata la propria correttezza da scelte governative incivili che consentono agli evasori di professione di sanare con una manciata di denari reati ed evasioni ingenti;
e. il problema casa: per chi non ha un alloggio in proprietà
f. le inefficienze della giustizia; di quella civile, collassata più ancora di quella penale;
E a fronte di queste carenze,
– sperpero incredibile di pubblico denaro: miliardi gettati per imprese assurde, Italia ’90, le Colombiadi. Diceva l’altra sera Franco Cazzola che non si comprende perché per onorar Colombo si sia asfaltato l’Abruzzo; progetti faraonici rimasti a metà, scelte disastrose come quella del trasporto per tutta Italia dell’immondizia fiorentina, costo di oltre 80 miliardi fino a oggi; opere che non vedono mai la fine, come il Bilancino, ma che in compenso aumentano sempre di prezzo; con devastazioni ambientali; palazzi faraonici dell’Inps i cittadine meridionali con poche migliaia di abitanti; la metropolitana a Matera (due chilometri: non ci sale mai nessuno, si fa prima a piedi)
– un indiscriminato assistenzialismo che ha trasformato in certe aree la pensione di invalidità in un sussidio sociale.
Queste sono le cause profonde di ciò che emerge oggi; decenni di pessimo uso delle risorse, insieme a deviazioni sistematiche nell’uso dei pubblici poteri, ispirate a criteri di utilità partitica o personale, non a regole di economicità e di buonsenso.

Che fare? Che cosa può fare il cittadino che a queste vicende vuol rimanere estraneo? Che anche nell’Italia di oggi ha la suprtema ambizione di rimanere galantuomo?
Il mio punto di vista credo a questo punto sia chiaro. E non lo voglio nascondere. I giudici facciano il loro mestiere. Con equilibrio, ma con rigore. Non si occupino di soluzioni politiche, che non spetta a loro indicare. E non cerchino neanche loro di ricostruire una scala di valori morali. Questi non sono compiti loro. Essi hanno da applicare la legge. Un dovere cui non possono sottrarsi.
Ma la società civile non ha nessun impegno da svolgere? E’ solo mestiere di giudici ristabilire il senso della legge? O non siamo chiamati ognuno di noi a fare delle scelte sia nel nostro paticolare, sia nel sociale? Ecco il senso di un interrogativo cui mi sollecitava giorni orsono uno di voi.
Ora io dico che il ruolo dei cittadini è più importante in questo momento dei giudici. Meno appariscente, ma più importante.
Ora queste scelte, se si debba andare avanti con le inchieste o vi si debba porre sopra una pietra tombale non sono scelte di giudici. Non sono cose che tocca ai giudici dirimere. Non hanno la forza, ma soprattutto non hanno la legittimazione. Spetta a tutti noi, spetta ai cittadini, spetta a voi la scelta: se si debba alzare il coperchio fino in fondo, fin quando quel che è rimasto coperto non sia venuto alla luce; fin quando non sia fatta luce sui molti misteri di questi decenni, che son tanti e, spesso, assai tenebrosi; ricordiamone per tutti l’omicio Ambrosoli; o se invece si debba dire basta cercare; basta ascoltare chi denuncia d’essere stato concusso; basta con la galera facile per corrotti e corruttori; chiudiamolo questo pozzo senza fondo; escogitiamo qualche accorgimento abile che ci consenta di dire che pulizia è fatta, ma che ora è tempo di smettere; e di riprendere; perché questo è il punto, una vita ordinata; che, l’esperienza pluridecennale insegna, comporterà sanatorie, riabilitazioni, condoni, e, ovviamente, nuove tecniche insidiose.
Perché, come ci ha insegnato un’alta personalità a pensar male si fa peccato ma s’indovina.

Eccola l’ardua domanda, cui ciascuno deve trovare una risposta in cuor suo.
Vivere la legalità nel quotidiano. Vedete che tema difficile mi avete dato. Posso limitarmi a dire: io voglio rispettare i miei doveri individuali, i valori della famiglia, della società; voglio essere buon padre, buon cittadino; pagherò le imposte, non accetterò compromessi, non chiederò favori né privilegi, non compirò soprusi. Basta questo impegno nel mio particolare a farmi sentire soddisfatto della mia rettitudine? Posso dire di avere assolto ai miei doveri di solidarietà se non commetto ingiustizie, ma non m uovo un dito per far cessare l’ingiustizia che vedo dinanzia a me? Io dico che no, non è possibile. Vi sono delle scelte che richiedono coerenza.
Se voglio essere coerente con i miei principi, il mio impegno non può rimanere diviso a metà. Anche perché il mio desiderio di vivere nella legalità è destinato a rimaner soccombente, se tollero l’illegalità altrui. Allora i giudici vanno sostenuti, perché la loro azione, per quanto fonte di sofferenza sociale, è un passaggio necessario se vogliamo cominciare a costruire una legalità nuova; dove ai ragazzi non sia necessaria la tessera o la raccomandazione di un onorevole per trovare un’occupazione, dove le imprese non debbano fare a mezzo del guadagno per ingraziarsi qualche potente, dove i posti di maggiore responsabilità vadano ai più meritevoli, non ai più raccomandati.
Questo bisogno di legalità è il fatto nuovo della società italiana nel 1993.

E’ un fatto straordinariamente positivo. Di fronte ai tanti che profetizzano sventure io dico invece che si apre al paese una stagione di speranza nuova. C’è il bisogno di ritrovare una cultura della legge, che è poi la cultura del rispetto dei diritti reciproci, ricoscoperta dei doveri civici come servizio reso ai propri simili. Questo paese dispone di enormi risorse intellettuali, di grandi capacità di lavoro. Io credo che querst’opdera di risanamento sia necessaria, perché costringe tutti noi a porci dinanzi alle nostre responsabilità individuali e collettive. Ed è comunque necessaria perché possiamo entrare a far parte dell’Europa in condizioni di parità di diritti e di possibilità di lavoro. Un’imprenditoria assistita, così come un’imprenditoria corrotta non ha spazio nel contesto internazionale. Raccogliamoci tutti con fiducia, intorno alla domanda di una legalità più vera, di una giustizia più giusta. Credo che i nostri figli ci saranno riconoscenti per questo impegno.

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