Quanti commissari per il futuro dell’Europa?

20 Novembre 2003

Sui lavori della CIG, la Conferenza intergovernativa dei capi di stato o di governo chiamata a decidere sulla proposta di costituzione europea elaborata dalla Convenzione presieduta dal francese Valéry Giscard D’Estaing, è sceso un velo di silenzio. Visti i precedenti e le polemiche che hanno accompagnato le esternazioni o le indiscrezioni dei mesi passati, forse è meglio così, ma è permesso dubitare: ancora non si è capito come la Presidenza italiana intenda portare in porto una partita diplomatica e politica sulla quale ha riposto tante attese. Le questioni aperte su cui decidere sono molte. Più il tempo passa più vengono a galla le magagne della proposta della Convenzione che perde per strada molti dei suoi sostenitori.
Nelle fila del Parlamento europeo serpeggia la consapevolezza che il parere fornito in settembre a favore del documento convenzionale sia stato frettoloso e troppo benigno, con la conseguenza di esporre troppo, isolandoli, la Commissione e in particolare il Presidente Prodi, sostenitore di un modello diverso di costituzione. Il problema non sta tuttavia nel fatto che tutti vogliono difendere le proprie prerogative, quanto piuttosto nel fatto che l’Europa politica non vive soltanto una crisi di crescita, ma è veramente in pericolo, perché sul delicato sistema istituzionale che fino ad oggi le ha permesso di sopravvivere e di crescere si stanno scaricando tensioni economiche e geopolitiche enormi, mai così forti. L’Europa politica sta attraversando un momento molto rischioso alla fine del quale potrebbe esserci anche il fallimento e un rigurgito di nazionalismi.

Negli ultimi anni, da Nizza in poi, si è discusso molto sul se e sul come portare in porto l’allargamento e la revisione delle regole comunitarie e meno sul perché, che invece si sta prendendo la sua rivincita.
Tra i punti oggetto di trattative tra i 25 governi dell’Unione allargata ve ne è uno che più degli altri ha un valore simbolico, quello del numero dei commissari. Secondo il trattato di Nizza, la prima Commissione che seguirà all’adesione di un ventisettesimo stato dovrà contare su di un numero di Commissari inferiore a quello degli stati membri, indicati secondo un principio di rotazione. La proposta della Convenzione dice addirittura che la nuova Commissione prevista dal nuovo Trattato dovrebbe essere composta dal Presidente, da un vicepresidente anche ministro degli Esteri dell’Unione e da tredici commissari scelti in base ad un sistema di rotazione in condizioni di parità tra gli stati membri (art. 25, c.3). Il Presidente della Commissione nominerebbe poi degli altri commissari senza diritto di voto provenienti da tutti gli Stati membri non ancora rappresentati. La proposta Penelope, sostenuta da Prodi, prevede invece che la Commissione sia “composta da un cittadino per ciascun stato membro”. Siccome la nuova costituzione dovrebbe entrare in vigore prima dell’allargamento da 25 a 27 paesi, si porrebbe comunque il problema di scegliere se applicare quanto previsto dal vertice di Nizza o quanto verrà definito dalla nuova costituzione. Il problema è quindi di attualità e va affrontato.
A favore di un numero di commissari pari al numero dei paesi gioca evidentemente il fatto che si tratterebbe di una soluzione lineare, chiara e paritaria, che non scontenterebbe nessuno perché nella linea dei Trattati precedenti a quello di Nizza e di fatto fin qui applicata.

I critici sostengono che, a fronte di un allargamento massiccio dell’Unione, la formula europea originaria di un organismo indipendente ma anche rappresentativo di tutti, non potrebbe più funzionare perché si avrebbe un collegio pletorico difficile da far lavorare, privo della necessaria efficienza. Si tratta di una critica leggera, perché nulla vieterebbe alla Commissione di dotarsi di una modalità di funzionamento interno a cerchi concentrici, creando una sorta di centro motore a cui affidare compiti sovraordinati e di coordinamento.
Si tenga presente che già attualmente non tutti i paesi sono rappresentati allo stesso modo all’interno della Commissione, perché i più grandi dispongono ad esempio di due e non di un solo commissario. In realtà, il problema della riduzione del numero è un falso problema. Prima di tutto non si capisce perché non si possano approfondire piuttosto soluzioni organizzative interne mantenendo comunque il principio della pari dignità, e in secondo luogo non si capisce perché non dovrebbe valere per le prossime Commissioni europee quanto vale per molti governi nazionali che raggiungono un sufficiente grado di efficienza e di efficacia pur dovendo operare con un numero di ministri ben superiore a 15. D’altra parte, anche le competenze della Commissione, come oggi lo sono per un governo, diventeranno sempre più estese e l’autorevolezza necessaria per gestirle può e deve in molti casi essere sostenuta da una dignità e da un rango politico che solo l’appartenenza, sia pure regolata gerarchicamente, al medesimo collegio può assicurare.

Va segnalato ad esempio, che quasi a smentire l’esigenza conclamata di una semplificazione, la Convenzione, ispirata da molti governi nazionali, è giunta a proporre per il massimo livello istituzionale una diarchia di figure, il Presidente dell’Unione e il Presidente della Commissione il cui buon funzionamento è tutto da dimostrare e che prefigura una sorta di bicefalismo alla francese che molto ha a che fare con il modello transalpino della coabitazione e meno con le esigenze del futuro dell’Unione.
Come si vede, sulle quantità è meglio non costruire battaglie di principio. Il problema del numero dei commissari contiene invece un argomento molto delicato ed importante che i fautori della riduzione rinfacciano a Prodi e a quanti invece ancora si battono perché vi sia un commissario, con pari dignità, per ogni stato membro. Affermano che proprio un numero ridotto di membri, scelti a rotazione, è il segno tangibile e quindi la garanzia di un principio fondamentale che ha retto l’Unione fin dalla sua nascita secondo la volontà dei padri fondatori e cioè che il commissario, per quanto proposto dai rispettivi governi, una volta nominato non opera sulla base di un mandato dello stato a cui appartiene, ma nell’interesse generale dell’Unione e quindi è tenuto a spogliarsi della propria divisa o bandiera per assumere e sostenere quella comunitaria. Si osserva che molte volte i vari Commissari hanno non solo votato contro gli interessi del proprio paese d’origine, o si sono astenuti, ma che anzi hanno avviato procedure sanzionatorie contro gli stessi, in sostanza senza guardare in faccia nessuno.
La prassi di funzionamento della Commissione ha dimostrato tuttavia che l’indipendenza dei singoli commissari è difficile da definire e da certificare, ma che invece risulta chiara l’indipendenza della Commissione in quanto tale.

La stragrande maggioranza delle decisioni della Commissione avviene con procedure tali che raramente si giunge ad un dibattimento orale seguito da un voto e anche in quei rari casi nei quali non si decide all’unanimità il voto contrario di uno o di più commissari risulta un voto di bandiera e di rispetto nei confronti delle decisioni prese più che di sfida. Le decisioni vengono assunte su proposta del commissario competente e quasi mai si giunge alla fine del procedimento a contestarne il lavoro fatto o addirittura la competenza. Semmai, il problema si potrebbe porre su come distribuire le competenze, le deleghe, ma questo problema, già affrontato e comunque risolto in molti modi, non riguarda il numero dei commissari bensì le garanzie per un corretto funzionamento dell’organo. (La materia è complessa anche per gli specialisti e il rinvio è d’obbligo, al proposito, ai recenti saggi e interventi di Paolo Ponzano, uno dei massimi esperti sul funzionamento dell’Unione, direttore della Task force “Futuro dell’unione” del Segretariato generale della Commissione). In realtà il nodo è, ancora una volta, politico e concerne i compiti che si vogliono dare alla Commissione e più in generale all’Unione europea. I critici del principio di pari rappresentatività dimenticano spesso che già con il Trattato di Maastricht del 1994, anche per limitare il rischio di mandati vincolanti, si è introdotto l’obbligo di sottomettere la composizione della Commissione ad un voto di approvazione esplicita da parte del Parlamento.

I critici della proposta Prodi non si curano invece di rispondere alla questione di come si troverebbero gli eletti dei paesi senza un Commissario al momento di votare la fiducia al Presidente e alla Commissione stessa.
Un parlamento pienamente rappresentativo e democraticamente eletto sarebbe chiamato a votare la fiducia ad una Commissione meno rappresentativa. Una Commissione che non avesse al suo interno almeno un rappresentate per ogni stato membro godrebbe di un rango certamente inferiore a quello del Consiglio che invece li accoglie tutti. Come potrebbe ragionevolmente una Commissione adottare, magari anche all’unanimità, e pretendere di far applicare decisioni contro gli interessi di uno o più stati membri per di più non rappresentati nel suo seno? E’ evidente che in quel caso i colpiti si rifarebbero sul Consiglio che in quel modo sarebbe chiamato a svolgere un ruolo politico troppo superiore a quello di cui disporrebbe la Commissione. La soluzione della Convenzione presieduta da Giscard d’Estaing è dunque contraria al principio di collegialità e di pari dignità e non aiuta a risolvere quello dell’efficienza politica del governo europeo. Ma vi è un altro argomento che rende difficile capire come mai si insista su di una Commissione a ranghi ridotti quando invece ci si dovrebbe battere per una Commissione il più rappresentativa possibile: qualora fosse anche ipotizzabile e necessario arrivare ad una riduzione del numero dei commissari, perché volerlo imporre fin da adesso, quando non uno o due ma dieci e presto dodici o quindici paesi stanno entrando nell’Unione? Perché voler imporre questo dazio inutile che suona come uno sfregio? Si teme forse che, se non si adotta subito la scelta della riduzione del numero, non si potrà poi riproporla, visto che una volta approvata, se mai si giungerà ad una sua approvazione in tutti i 25 paesi membri!, la nuova costituzione risulterà quasi immodificabile? Ma ancora una volta tutto dipende da quanto rigida si vuole la costituzione e quali misure si adotteranno per la sua possibile modifica o revisione.
Ancora: come credere che un paese membro, grande o piccolo, possa tranquillamente accettare decisioni che lo riguardano quando è stato escluso dal momento della decisione? Dovrebbe forse farsi rappresentare da qualche altro Stato, instaurando una sorta di diplomazia parallela? Quale sarà il capo di un governo che vorrà imporre al proprio popolo decisioni impopolari prese lontano, a Bruxelles, magari dolorose? Perché non far valere anche relativamente al numero dei commissari la preoccupazione che invece si fa valere quando si propone che la nuova costituzione per essere cambiata debba richiedere l’unanimità? Si dice che nessun attuale governante avrebbe il coraggio di condurre la difficile campagna per la ratifica della nuova costituzione senza essere garantito sul fatto di poter esercitare un potere di veto su ogni sua qualsiasi modifica, anche minore.

Bene!, ma quello che vale per l’inizio non dovrebbe essere esteso coerentemente anche al seguito e a maggior ragione nella vita concreta del governo dell’Unione? Insomma, la bozza proposta dalla Convenzione è schierata in maniera massiccia verso l’unanimità e l’unanimismo tranne che su un punto, quello del numero dei commissari, che invece potrebbe benissimo rimanere regolato secondo la storia pluridecennale dell’Europa. Viene un sospetto: che gli euroscettici abbiano lavorato di fino, con giudizio, per garantirsi una quantità di occasioni su cui far inciampare l’Europa del futuro, magari per avere la possibilità di starci senza troppo impegnarsi o per avere l’occasione di rovesciare il tavolo. Il futuro non è sempre nelle nostre mani, ma certo non è difficile ammettere che proprio la riduzione della collegialità sarà fonte di forti tentazioni euroscettiche nelle varie opinioni pubbliche e magari potrà trasformarsi in un’ occasione per far inceppare l’intero sistema. Ad esempio: a fronte di una decisione presa contro la propria volontà, magari una decisione minore ma di forte impatto simbolico ed emotivo, un popolo potrebbe ribellarsi utilizzando proprio l’argomento della mancata presenza di un suo commissario, ma siccome ciò non sarebbe altro che la conseguenza di quanto previsto dalla Costituzione europea, rigida e immodificabile, allora l’attacco verrebbe esteso direttamente all’Europa, magari fino al punto di una drammatica secessione. Dove è finito dunque il principio politico della prudenza? E’ mai possibile che tutti facciano finta di non pensarci? La cosa preoccupa, in particolare in relazione al nostro governo, che ha l’onere e l’onore di guidare la CIG e che dovrebbe pertanto farsi carico di tutta la prudenza prospettica possibile, addirittura dello zelo di simulare tutte le possibili situazioni.

Insomma, sarebbe bene che Berlusconi abbandonasse per una volta non solo la linea di Giuliano Amato, che certo non se ne avrebbe a male, ma anche quella di Giscard che appare sempre di più un vero campione dell’euroscetticismo. Sarebbe bene che l’Italia sostenesse convintamene la linea di un commissario per ogni paese.

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