Populismo e pandemia: chi perde, chi guadagna

07 Ott 2020

Nadia Urbinati Consiglio di Presidenza Libertà e Giustizia

Un tema di grande interesse presso gli studiosi di politica è se la pandemia abbia o no indebolito il populismo. Imponendo ai governi decisioni capaci di tenere insieme attenzione alle competenze e responsabilità politica, il Covid -si sostiene- ha ristretto le possibilità di successo del populismo. Dovremmo essere dubbiosi verso questa lettura ottimistica.

Per motivare il dubbio suggerisco di partire dalle due caratteristiche peculiari del populismo del XXI secolo: in primo luogo, ha saldato un’alleanza con il nazionalismo nativista a giustificazione di una retorica e (se al potere) di politiche aggressive contro obiettivi specifici: immigrati, minoranze culturali, opposizioni, media non supini, forme sovranazionali di cooperazione. Lo ha fatto per costruire una narrativa escludente e faziosa del “popolo” al quale un leader dà voce e volto. In secondo luogo, ha orchestrato una permanente campagna elettorale per dimostrare di essere radicalmente contro l’establishment o la casta. -n nemico del quale, però, ha bisogno per esistere e crescere.

Questa è la fisionomia del potere populista nel nostro tempo. La pandemia ha iniettato nel tessuto socioeconomico e legale-politico delle nostre democrazie dei mutamenti che avranno un impatto sul populismo. E se è impossibile predirne il futuro, si può almeno cercare di individuarne la traiettoria a partire proprio da questi mutamenti.

I mutamenti indotti dal Covid riguardano da un lato, il tenore delle democrazie costituzionali (più esecutive, meno parlamentari) e dall’altro, il ruolo della competenza. La pandemia ha innalzato l’autorità della scienza, ma ha anche confermato quel che da tempo studiosi e cittadini sostengono: che le procedure democratiche sono spesso inefficaci, lente, e mal disposte a farsi correggere dalla competenza. Secondo alcuni osservatori, il Covid ha imposto l’ascolto della competenza e questa sarebbe una pessima notizia per il populismo, il quale è notoriamente anti-intellettuale e pronto a creare ed abbracciare fake news e retoriche cospiratorie.

Eppure, c’è ragione di dubitare che la scienza ci salverà dal populismo (lasciamo a un’altra occasione la questione se possa essere un buon correttivo della politica democratica). E’ proprio la pandemia a rafforzare questo dubbio. Il Covid ha mostrato quanto provvisorie siano le teorie e i risultati delle scienze biomediche, esposti ai mutamenti quasi come le opinioni generiche di noi cittadini. La sperimentazione procede per tentativi ed errori e, soprattutto di fronte ad un virus nuovo, non riesce a dispensare forti certezze.

Gli scienziati stanno imparando come noi, benché usino laboratori e ricerche controllate invece di opinioni raccolte qua e là, seguendo la bussola delle emozioni come la speranza e la paura. Ma l’incertezza e la provvisorietà delle conoscenze è ed è stata tanta. Ad essa si è aggiunto il potere di fuoco dei media che ha travolto gli esperti, divenuti nel volgere di poche settimane degli opinion-makers e delle celebrità, proprio come i politici. In molti si sono esposti al rischio della contestazione popolare e hanno eroso l’aura di imparzialità della loro competenza. E tutto ciò fa molto bene al populismo.

Per questa ragione, ha senso essere scettici sulla funzione riparatrice della conoscenza scientifica. Matteo Salvini ha mobilitato migliaia di seguaci per gettare discredito sulle raccomandazioni dei biologi e dei medici, reclamando la libertà dalla mascherina e dalle norme di distanziamento sociale, e accusando il governo di tenere un ruolo subalterno rispetto agli esperti.

Similmente a Giorgia Meloni, si è eretto a leader libertario, contro il governo autoritario, attaccato prima per la scelta della chiusura e poi per quella della riapertura. A partire da agosto, le piazze delle capitali europee hanno preso ad imitare le manifestazioni dei nostri arancioni contro la mascherina, persuasi che il Covid sia stato un bluff o una esagerazione inventata dalle case farmaceutiche per imporci il vaccino (futuro oggetto di scontro).

In tutti i Paesi dove ha voce, il populismo nell’era del Covid mostra di avere una preferenza per le risposte neoliberali al contagio e alla sanità. Negli Stati Uniti e in Brasile la lotta demagogica contro le opposizioni si è tradotta in attacco allo “statalismo”. Presentarsi come leader del popolo che difende la libertà individuale contro le intromissioni “autoritarie” dei governi manipolati dai virologi è una delle trasformazioni della retorica populista, che può incontrare simpatie in società che si sono nel frattempo impoverite, anche a causa di mesi di forti restrizioni delle attività economiche.

L’opposizione tenuta contro il lockdown potrebbe quindi venire usata dai populisti per conquistare la rappresentanza dello scontento sociale. La disoccupazione e la crescente sofferenza economica possono dunque essere benzina gettata sul fuoco del populismo se non ci saranno altri soggetti politici a dar voce e rappresentanza a chi più ha sofferto le conseguenze del Covid. Con la riconversione neoliberale messa in atto nei mesi della pandemia, i leader populisti possono reinventare sé stessi contro i governi e gli esperti che hanno “affamato la gente”.

Qui sta la sfida alle forze di centro-sinistra e democratiche: se queste non saranno capaci di riportare la giustizia sociale e le politiche ridistributive al centro dell’agenda e dei governi, per il populismo si prospetterà un brillante futuro.

Politologa. Titolare della cattedra di scienze politiche alla Columbia University di New York. Come ricercatrice si occupa del pensiero democratico e liberale contemporaneo e delle teorie della sovranità e della rappresentanza politica. Collabora con i quotidiani L’Unità, La Repubblica, Il Fatto Quotidiano e con Il Sole 24 Ore; dal 2019 collabora con il Corriere della Sera e con il settimanale Left.

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