Un documento per l’Europa

20 Apr 2019

Nadia Urbinati Consiglio di Presidenza Libertà e Giustizia

Le elezioni europee vedono avanzare i movimenti populisti e sovranisti, che hanno fatto della retorica della paura il collante delle insoddisfazioni sociali. Ma non è lafine del progetto europeo, anche se come abbiamo avuto modo di constatare in questi anni, la politica democratica è ricca di colpi di scena e molto repentina nel determinare nuovi scenari. L’affaire Brexit milita a favore dell’Europa. E infatti, gli antieuropei nazionalisti del continente hanno notevolmente moderato i loro toni e accantonato l’idea di mettere fine all’esperienza europea. A questo proposito, ci sono importanti “novità” di cui tener conto nelle nostre valutazioni su quel che potrà essere il prossimo futuro: a partire dal 2015 e in coincidenza con il picco più elevato delle migrazioni, i nazionalismi si sono aggiornati e ora reclamano una leadership europea.

Dopo riunioni in varie città, le visite ricambiate di Salvini in Polonia e nei Paesi di Visegrad, gli ammiccamenti di Marine Le Pen, i capi dei partiti sovranisti si presentano come alleati in un progetto di “internazionale populista”, benedetto da Steve Bannon, il protagonista straniero della campagna elettorale per il rinnovo del Parlamento europeo, nel maggio 2019. L’obiettivo è fare dell’Ue un continente ermetico retto su pochi chiari obiettivi, per nulla estranei alla storia europea: centralità della razza bianca, della religione cristiana, del benessere per europei. Un’Europa chiusa a chi viene da fuori. Anche questa è l’Europa, non solo quella illuminista e universalista. Ma forse lo scopo finale è di indebolire i legami europei e aprire quindi il continente alla colonizzazione dei tre grandi Paesi egemoni, gli Stati Uniti, la Russia e la Cina. Indebolire o anche “finire” l’Europa significherebbe rendere i Paesi europei (quelli più vulnerabili soprattutto) terra di conquista.

La politica di chiusura ermetica che le destre nazionaliste e sovraniste propagandano in tutta Europa, intervenendo sulla ridefinizione della cittadinanza su basi etniche, ha come effetto principale la decostruzione e la ricostruzione del “popolo sovrano”, che in una democrazia dinamica e aperta non dovrebbe avere connotazione etnica, religiosa, culturale, di sesso – come ci spiega anche la nostra Costituzione.

Quello che sta accadendo rimette in discussione il patto sociale della cittadinanza politica, ridefinendo il “noi” e il “loro”. Si tratta di una grande regressione, che sembra far ripiombare il continente verso quelli che furono veri e proprio incubi. Se guardiamo indietro alle tragedie europee del secolo passato, ci accorgiamo che la questione del pluralismo – anzi la difficile accettazione del pluralismo – è permanente e pronta a tornare con virulenza. Nella Germania di Hitler, la persecuzione degli ebrei concretizzò il progetto totalitario. Non dovremmo dimenticarlo. Quando si rimettono in discussione i diritti di una minoranza su base etnica o razziale, è tutta la comunità di cittadini ad essere messa in discussione, perché quando una comunità decide di espellere o di escludere lo fa sulla base di una discriminazione che non ha nulla a che fare con la cittadinanza politica. A quel punto non c’è in teoria limite alla discriminazione. Le politiche identitarie sono politiche di esclusione che vanificano il governo della legge perché rendono la legge proprietà di qualcuno. Non importa se il “qualcuno” è numeroso o maggioritario.

Il rischio c’è, soprattutto se le forze nazionalsovraniste riusciranno a tirare dalla loro parte (questo è il loro progetto) il Partito popolare. Ricordiamo che il Partito di Viktor Orbán (qualora il 20 marzo non fosse confermata la procedura di espulsione proposta da dodici partiti aderenti al Ppe ai danni di Fidesz) si candida ad essere la seconda o la terza forza del Partito popolare europeo, dove milita anche il partito del premier austriaco Sebastian Kurz. Né bisogna sottovalutare la capacità di queste forze di parlare all’immaginario di popolazioni stremate dalla crisi e risentite verso coloro (gli immigrati) che una propaganda martellante ha trasformato in capro espiatrio. Paura e risentimento sono due passioni micidiali per la politica, e in totale stridore con le idee democratiche.

Sul piano sociale hanno giocato un ruolo importante la disgregazione delle classi popolari, delle culture politiche e poi le disuguaglianze crescenti tra parti della popolazione, che la sinistra non ha saputo o voluto rappresentare e affrontare con risolutezza. L’incompiutezza del progetto di unione politica lo ha impedito e lo sta impedendo. Non si può non volere l’Europa unita, tuttavia, quella attuale è un’Europa difficile da difendere, perché è essenzialmente un mercato la cui moneta unica ha diversi corrispettivi nei diversi Paesi, ma non un’unità di valore. Perché la sua unione risiede nel sistema di regole tenute insieme da vincoli di bilancio che mentre impediscono alle diverse nazioni di rispondere ai bisogni sociali dei loro Paesi, non assegnano all’Ue alcun centro democratico di progettualità politica e redistribuzione. Senza un’unione politica e un coordinamento delle regole fiscali, le costrizioni alle Quinquali questa Europa è vincolata rischiano di esasperare ancora di più i nazionalismi e di giustificare i sovranismi.

L’arcipelago di democratici, socialdemocratici e verdi, è sembrato fino ad oggi incapace di elaborare una risposta alternativa a un’Europa sovranista. Ma questo vale per l’Italia soprattutto. Le forze democratiche e di sinistra devono recuperare i valori fondanti dell’Unione, ma perché la loro non sia la solita stantia retorica, devono avere la lungimiranza e il coraggio di proporre una radicalità di contenuti. L’Europa deve essere una scelta di campo che metta al centro tutte le idealità che avevano mosso i padri fondatori dell’Unione. L’attualità del Manifesto di Spinelli sta qui, poiché quel Manifesto non voleva essere un esercizio utopistico ma una visione pragmatica che tenesse insieme solidarietà e sicurezza sociale con la libertà personale e politica. Ma senza una politica sociale che contenga e limiti le prerogative del mercato, che metta steccati a quel che il mercato può o vuole fare, quell’idea di Unione è un bluff.

 Dieci “ancore” per un attracco democratico


Sovranità

Per difendere e rilanciare l’Europa occorre più Europa, nel senso che occorre un centro politico capace di produrre decisioni su alcuni settori chiave: decisioni legittime dal punto di vista democratico, ovvero con una legittimità democratica meno indiretta. Non basta più avere un Parlamento così poco autorevole, che è espressione della volontà dei cittadini europei ma è esautorato dalle decisioni che sono nei fatti prese dai rappresentanti degli esecutivi nella segretezza delle riunioni informali, con la pretesa dell’efficienza. Questo è un problema serio che erode la legittimità di questa Europa.

Democrazia

Il sistema di decisione, naturale evoluzione di un continente che ha storie nazionali diverse alle spalle ma radici giuridiche e una cultura comuni, può essere quello federale democratico con un governo che nella produzione legislativa risponda ai cittadini e non agli esecutivi dei singoli governi degli Stati membri. Occorre a questo punto quella che possiamo definire una costituzionalizzazione dei poteri europei, con una chiarezza che oggi non c’è, sulle prerogative degli organismi parlamentari elettivi, e su quelli esecutivi, sul ruolo della Banca centrale e la sua rispondenza a un’entità politica rappresentativa dei popoli europei.

Frontiere

Il tema europeo è un tema di frontiere: su come vengano intese e interpretate, su quanto porose debbano essere, su quanta libertà di movimento possa essere consentita a chi viene da fuori, sulla differenza tra richiedenti asilo e bisognosi di lavoro.

L’Europa nacque sulla libertà di movimento, per superare gli steccati delle frontiere, ma rischia ora di arenarsi proprio sulla libertà di movimento e sulle frontiere che si chiudono. La chiusura delle frontiere segna un’antitesi rispetto all’Europa delle origini, che era nata proprio per superare la dimensione nazionalista. L’idea stessa di cittadinanza in chiave europea è un superamento della vecchia cittadinanza su base etnica, un nuovo confine che non è più separazione ma opportunità. Con la chiusura dei porti, la criminalizzazione delle Ong, che pure hanno svolto un ruolo fondamentale nel salvataggio di migliaia di vite – oggi è l’Europa a rischiare il naufragio, perché nega gli stessi principi su cui è nata.

Integrazione

Se guardiamo ai dati reali (in Italia sono appena il 7%), non esiste alcuna invasione dei migranti. Una ricerca Eurostat di qualche mese fa ha però dimostrato che, grazie anche alla propaganda martellante della destra, la percezione del fenomeno nella nostra opinione pubblica è totalmente distorta: secondo i nostri concittadini la percentuale di stranieri ammonterebbe al 24%, un dato completamente scollegato dalla realtà. Questa percezione dilatata, riguarda in modo trasversale tutti i Paesi, ma in modo maggiore i Paesi che sono sul confine, che non necessariamente sono quelli con più migranti. Ad esempio il nostro, ha una delle percentuali più basse dell’intera Unione. Nei prossimi anni, a causa del declino demografico che investe l’intera Europa, avremo bisogno di milioni di nuovi lavoratori per sostituire le maestranze che a noi mancheranno. Un ragionamento illuminato dovrebbe partire da qui, per introdurre una politica di apertura anche ai migranti economici, le cui professionalità potrebbero venire incontro alle nuove domande della nostra economia. Ovviamente, il criterio economico non deve essere l’unico: abbiamo un enorme debito nei confronti dei Paesi africani, massacrati da decenni di colonialismo, prima politico e poi economico.

Diritti

Da questo punto di vista, l’Europa continua a rappresentare un argine a derive nazionali pericolose. Il complesso di norme che l’Unione ha partorito nel corso degli anni, e che a molti appaiono un limite all’azione degli Stati nazionali, in realtà hanno in questi anni rappresentato un punto di riferimento per i cittadini europei contro decisioni dei governi nazionali in aperta violazione di diritti individuali o collettivi. L’Italia repubblicana non nacque né autarchica né nazionalista. La Seconda Guerra Mondiale ha chiuso il capitolo tristissimo dei “diritti di qualcuno” e ha aperto la strada a una visione universalista, che ha radici sia illuministe sia cristiane. La sinistra deve trovare una sua dimensione europea per intercettare i movimenti non più nazionali, ma transnazionali che rivendicano su scala globale gli stessi diritti e lamentano le stesse ingiustizie.

Pluralismo

Senz’altro il valore del pluralismo delle culture e del pluralismo etnico sono la base stessa della costruzione europea. Noi siamo europei al plurale, non esiste una Europa singola. L’Europa è senz’altro un’opportunità dal punto di vista culturale. Basti guardare ai nostri centri di ricerca e alle nostre università, che hanno avuto insperate potenzialità di scambio e di collaborazione. Guardiamo alle opportunità che hanno avuto i nostri studenti di seguire i programmi europei di scambio all’estero: un modo per aprire la loro mente e per potere aspirare a carriere migliori. E i nostri ricercatori di cooperare con i loro omologhi europei. Oggi possiamo parlare a buon diritto di “cultura europea”: l’apertura e la consuetudine, hanno determinato una progressiva proiezione dei cittadini nazionali in un’Europa plurale. Da questo scambio, abbiamo fatto tutti un passo in avanti. Ora però queste opportunità vanno difese da un ritorno indietro. La chiusura non ci porterà da nessuna parte.

Giustizia sociale

Consapevoli che non c’è un solo bene – il profitto o il benessere economico – ma c’è una pluralità di beni il cui ottenimento richiede metodi e principi distributivi diversi. Il bene “educazione” deve essere distribuito secondo le capacità e mirare a formare le specificità intellettuali dei singoli studenti, ma le possibilità economiche non devono essere un criterio distributivo. Essere poveri o provenire da un’area sociogeografica disagiata non deve essere una condizione di partenza per un bambino. Ecco perché la democrazia deve darsi il bene educazione come bene pubblico. È la giustizia ma soprattutto il rispetto della singola persona che lo richiede. E così per altri beni pubblici che devono essere distribuiti in ragione dei bisogni, della contribuzione dei cittadini, e dei fini. Non c’è un principio unico come il mercato, e nemmeno un criterio di valutazione delle risorse unico – costi e benefici. Ci sono sfere di beni e sfere di giustizia che una democrazia deve rispettare – come del resto è scritto in molte delle Costituzioni dei Paesi europei.

Solidarietà

E’ proprio la mancanza di qualsiasi ambizione sociale, specie a sinistra, che sta generando tra i cittadini una diffusa sensazione di abbandono. A questa analisi segue un progetto interessante: usare le risorse di una tassazione finalmente europea dei proventi dei patrimoni e dei più ricchi, per finanziare servizi pubblici e politiche per contrastare i vecchi e i nuovi divari sociali ed economici all’interno dell’Unione. Le disuguaglianze, anche quelle territoriali, rappresentano il vero banco di prova dell’Unione, e qui la sinistra deve giocare un ruolo di propulsione, andando oltre l’accettazione acritica delle leggi del mercato degli ultimi anni. Un’Europa profondamente rinnovata con una propria organizzazione politica e una capacità di governo, per avviare progetti volti a colmare queste disuguaglianze e battersi per regole che limitino il potere della finanza globale e mettano fine ai paradisi fiscali presenti in Europa. Come abbiamo detto, questi sono obiettivi ormai impossibili per un singolo Stato nazionale.

Ecosostenibilità

La questione ambientale è una di quelle questioni che ci impongono di pensare e operare all’interno di una dimensione sovranazionale. E l’Europa ha tradizionalmente svolto un ruolo di avanguardia nel mettere l’ambiente al centro della politica. La politica ambientale dell’Ue è regolata dagli articoli 11 e 191-193 del Trattato dell’Unione; l’articolo 191, in particolare, dichiara esplicitamente che la lotta ai cambiamenti climatici è un obiettivo della politica ambientale dell’Ue. Secondo l’articolo 3 del Trattato, l’Unione Europea è impegnata a garantire «un livello elevato di tutela dell’ambiente e il miglioramento della sua qualità”.

* Pubblichiamo l’intervento che la professoressa Urbinati ha tenuto all’Assemblea annuale dei soci di LeG

 

 

 

Politologa. Titolare della cattedra di scienze politiche alla Columbia University di New York. Come ricercatrice si occupa del pensiero democratico e liberale contemporaneo e delle teorie della sovranità e della rappresentanza politica. Collabora con i quotidiani L’Unità, La Repubblica, Il Fatto Quotidiano e con Il Sole 24 Ore; dal 2019 collabora con il Corriere della Sera e con il settimanale Left.

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