Referendum, referendum!

10 Dicembre 2025

Livio Pepino Già magistrato

Articolo pubblicato su Associazione Borrè Verardi
Livio Pepino, 9 Dic 2025

Titolo originale Referendum, referendum!

Questo contenuto fa parte di Osservatorio Autoritarismo

Il referendum sulla riforma Nordio, che si vorrebbe far passare come normalizzazione del potere che i magistrati avrebbero sulla politica, riguarda la Costituzione e la sua tutela, così come fu con Renzi e con Berlusconi. E riguarda tutti noi, la nostra libertà, il nostro essere uguali davanti alla legge

Per la terza volta negli ultimi vent’anni la vita politica del Paese è scossa dal tentativo di modificare in profondità la Costituzione e dalla chiamata alle urne di cittadine e cittadine per un referendum oppositivo (impropriamente definito “confermativo”, quasi che si fosse chiamati semplicemente ad avallare una scelta già fatta). È accaduto con la riforma voluta da Silvio Berlusconi, respinta, nel 2006, dal 61,29% dei votanti (il 52,46% degli aventi diritto) e con quella propugnata da Matteo Renzi, bocciata, nel 2016, dal 59,1% dei votanti (il 65,48% degli aventi diritto). Ometto il riferimento alla legge di riduzione del numero dei parlamentari e il successivo referendum del settembre 2020 (che la confermò) non per dimenticanza ma perché relativi a un profilo circoscritto, ancorché importante, della Carta fondamentale. Andremo dunque a votare per la terza volta – chi ci andrà – sulla Costituzione, ché anche questa volta ad essere in discussione ne è un caposaldo, come indubbiamente è l’assetto della magistratura e della giustizia. Ci arriviamo sull’onda di un’approvazione avvenuta in un contesto di grida, sberleffi e gigantografie di Silvio Berlusconi. Non un buon viatico per il cambiamento di alcune regole della convivenza, ma tant’è.

I punti della riforma sono noti: l’affermazione esplicita che quelle di giudice e di pubblico ministero sono carriere distinte (con delega al legislatore ordinario per la definizione della conseguente disciplina), lo sdoppiamento dell’attuale Consiglio superiore della magistratura in due organi separati (uno per i giudici e uno per i pubblici ministeri), l’istituzione di un’Alta Corte preposta ai procedimenti disciplinari nei confronti di giudici e pubblici ministeri (con la componente togata costituita da soli magistrati di legittimità) e l’introduzione del sorteggio (in luogo dell’elezione da parte dei colleghi) come strumento per designare i componenti magistrati dei due consigli superiori e dell’alta corte disciplinare. Non scendo nei particolari e mi limito a una sintesi estrema: è una svolta nella direzione di una magistratura frantumata (grazie a una rappresentanza definita per sorteggio), burocratizzata (a seguito dell’indebolimento delle correnti interne e del pluralismo politico-culturale da esse indotto), con una struttura piramidale (conseguente al ruolo di vertice anche ordinamentale attribuito ai magistrati di legittimità) e con un maggior peso, negli organi di governo autonomo, della componente politica.

In questo contesto il referendum si sta sempre più delineando come una battaglia tra i magistrati e il resto del mondo, costituito da gran parte dell’avvocatura e dalla maggioranza politica (con l’opposizione divisa e, anche nella parte schierata per il No, timida e non particolarmente motivata). Una ragione in più per provare a ragionare, anche fuori dal coro.

1. Il primo punto della riforma, che addirittura (per pigrizia o per interesse) le dà il nome, è la separazione delle carriere. Non sono tra i pasdaran dell’unità ordinamentale di giudici e pubblici ministeri. Credo, anzi, che la disciplina dettata tre anni fa dalla legge Cartabia (eccezionalità del passaggio dall’uno all’altro ruolo: in pratica una sola volta in carriera e con trasferimento di sede) sia, oggi, un buon punto di equilibrio. Una rotazione nelle funzioni potrebbe essere, infatti, arricchente – come ho sperimentato nella mia vita professionale – ma, per esserlo, dovrebbe estendersi a tutte le professioni forensi: cosa che richiederebbe, peraltro, una rivoluzione culturale di cui non ci sono avvisaglie né nell’avvocatura né nella magistratura né nella politica. Meglio, dunque, stare con i piedi per terra e guardare alle soluzioni possibili. Tra queste, la disciplina attuale è, appunto, equilibrata, evita condizionamenti reciproci tra giudici e pubblici ministeri (ove non voluti), non offre il destro a confusioni, anche in termine di immagine, e limita le conflittualità con l’avvocatura. Mi è difficile, invece, vedere l’utilità di incrementare ulteriormente la situazione, addirittura modificando la Carta fondamentale. Ciò non serve ad evitare che i giudici siano condizionati dai pubblici ministeri: i condizionamenti ci sono, più o meno frequenti, ma – non ho dubbi in base alla mia esperienza – sono un fatto di cultura e di spirito di indipendenza, non di ruoli o di appartenenze. E neppure serve a meglio definire la figura del pubblico ministero che è, inevitabilmente, ambigua e partecipe di diversi ruoli, come sottolineava già oltre un secolo fa, Gaetano Salvemini affermando che «nella infinità varietà dei tipi balordi che arricchiscono la specie dell’homo sapiens, il più balordo di tutti è il regio procuratore». Eravamo nel 1897, in un situazione istituzionale ed ordinamentale ben diversa da quella attuale, ma già allora l’anomalia di questo funzionario, a metà strada tra giudice e poliziotto, non sfuggiva agli osservatori più attenti. Ora come allora si tratta di evitare che il pendolo oscilli, più di quanto già accade, verso la polizia e l’esecutivo, come sarebbe inevitabile (o comunque probabile) con una separazione insuperabile e l’inquadramento dei pubblici ministeri in un’organizzazione totalmente autoreferenziale.

2. Le modifiche introdotte nell’assetto della magistratura non cambierebbero alcunché – al di là degli slogan – nei tempi e nei contenuti della giustizia. Né in meglio né in peggio. La situazione resterebbe esattamente quella che è. Per la semplice ragione che per cambiare la giustizia bisognerebbe incidere su altri piani: potenziando le risorse disponibili e istituti come l’ufficio del giudice (di cui si prospetta, al contrario, l’imminente smantellamento) e, soprattutto, intervenendo sulle procedure e sulle leggi sostanziali, per esempio depenalizzando settori delicati come quelli degli stupefacenti e delle migrazioni (anziché introdurre a ogni piè sospinto nuovi reati). L’obiettivo della riforma non è del resto, dichiaratamente, il miglioramento del servizio giustizia ma altro: quello – per usare le parole della presidente del Consiglio – di dare «una risposta adeguata a un’intollerabile invadenza dei giudici». Ciò perché i giudici impediscono l’espulsione dei migranti, legano le mani alla polizia e ostacolano le politiche industriali del Governo, come sta avvenendo, per esempio nel caso dell’Ilva, come ha ulteriormente spiegato, a beneficio di chi non lo avesse capito, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano. Dunque, la finalità della riforma costituzionale – secondo i suoi artefici, non secondo i suoi critici – è  quella di ridefinire, modificando l’organizzazione della magistratura, i rapporti tra questa e la politica. In parole povere, quel che si vuole è che i giudici e i pubblici ministeri non disturbino il manovratore (o lo disturbino di meno) e che la forza prevalga sul diritto. Questi obiettivi sarebbero, almeno in parte, raggiunti con la riforma. C’è da dubitare che sia il risultato di cui il Paese ha bisogno.

3. Ma davvero – dicono alcuni, nei movimenti e nella sinistra antagonista – siamo di fronte a una riforma da contrastare, lasciando così inalterato l’assetto di una magistratura assai spesso protagonista di una repressione indiscriminata del dissenso e della protesta anche con iniziative e interpretazioni delle norme esistenti forzate e illiberali? Difficile contestare il fatto. L’accanimento repressivo di questi anni nei confronti dei movimenti ambientalisti più attivi, del movimento no Tav, dei collettivi studenteschi, del sindacalismo di base e via elencando è incontestabile. Ed è un accanimento che si è avvalso di un uso spregiudicato di misure cautelari, di contestazioni abnormi, di condanne a pene spropositate, di dilatazioni improprie del concorso di persone nel reato e di molto altro ancora. Vero, come personalmente ho spesso denunciato, entrando in polemica con molti ex colleghi. Ma non tutti i cambiamenti modificano la realtà in meglio. Alcuni la peggiorano ulteriormente. Oggi, infatti, accade – e non raramente – che ci siano decisioni giudiziari a tutela persino di barbari, marginali e ribelli. Ed è accaduto che i vertici della polizia siano stati condannati per i falsi commessi al fine di occultare le torture avvenute a Genova nel luglio 2001, che Stefano Cucchi abbia avuto una (seppur tardiva) giustizia, che le più scandalose deportazioni di migranti in Albania siano state annullate, che ad alcuni malati terminali sia stato consentito di morire con dignità, che molti riders si siano visti riconoscere lavoro e diritti, che la corruzione e le prevaricazioni del potere siano state almeno lambite da indagini… Oggi, in altri termini, c’è, per chi incrocia pubblici ministeri e giudici, almeno la possibilità (pur se non la certezza) di avere risposte coerenti con la Costituzione anche se sgradite al Governo. Non è detto che ciò sia ancora possibile, allo stesso modo, con una riforma che – come si è detto – burocratizza, frammenta e intimidisce la magistratura.

Forse la Costituzione è meglio che ce la teniamo così com’è, dando a Giorgia Meloni la stessa risposta data, venti e dieci anni fa, a Silvio Berlusconi e a Matteo Renzi.

Livio Pepino, già magistrato e presidente di Magistratura democratica, è attualmente presidente di Volere la Luna e del Controsservatorio Valsusa. E’, inoltre, portavoce del Coordinamento antifascista torinese. Da tempo studia e cerca di sperimentare, pratiche di democrazia dal basso e in difesa dell’ambiente e della società dai guasti delle grandi opere. Ha scritto, tra l’altro, “Forti con i deboli” (Rizzoli, 2012), “Non solo un treno. La democrazia alla prova della Val Susa” (con Marco Revelli, Edizioni Gruppo Abele, 2012), “Prove di paura. Barbari, marginali, ribelli” (Edizioni Gruppo Abele, 2015) e “Il potere e la ribelle. Creonte o Antigone? Un dialogo” (con Nello Rossi, Edizioni Gruppo Abele, 2019).

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