Per una pace disarmata e disarmante 

01 Dicembre 2025

Roberta De Monticelli Consiglio di Presidenza Libertà e Giustizia

Questo contenuto fa parte di Osservatorio Autoritarismo

Una Costituzione della Terra dove è ampliata la sfera degli oggetti da garantire: non solo i diritti fondamentali degli individui, ma anche i beni fondamentali alla sopravvivenza dell’umanità. In cui la pace mondiale è il nostro principale compito politico.

L’Osservatorio sulla militarizzazione delle scuole è una delle poche iniziative di società civile che rispondono a questo fenomeno pauroso, diffuso oggi anche in Italia oltre l’immaginabile: l’elogio delle armi, la loro esibizione, l’educazione dei bambini alla difesa della Nazione. Inclusa l’insinuazione nelle menti della bella formula di quel veterinario romano antico, si vis pacem para bellum, il logo dei macelli di tutta la storia umana.   

Documentare minuziosamente questi soprassalti di stato etico nella sfera pubblica dell’educazione,   combatterli sul campo e pubblicamente con gli strumenti del dissenso democratico, è la prima cosa che si dovrebbe fare per contribuire a questa iniziativa. Da “fuori campo”, per così dire, cercherò di contribuire almeno marginalmente  a descrivere l’aria che vi tira intorno, cioè il fenomeno degenerativo di una democrazia in netta involuzione autoritaria: se non altro perché l’aspetto della militarizzazione fa emergere in modo palese come non ci sia involuzione autoritaria senza il lento precipizio in cui si prepara la guerra, mentre stranamente il nesso fra le due cose e soprattutto la pari atrocità di entrambe sfugge oggi a una parte della sinistra, spaccata in due proprio sulla valutazione del ritorno della guerra in Europa e in definitiva sull’idea di guerra “giusta”. (Certo, è spaccata anche la destra, qui e altrove nel mondo, ma per motivi che con valutazioni più o meno accurate di “giustizia” o anche solo giustezza non hanno nulla a che fare). 

L’aria che tira

    C’è qualcosa di terribile nel silenzio con cui la maggior parte degli intellettuali che hanno pubblica voce – per non parlare della stragrande maggioranza degli accademici – assiste oggi alla violazione su larghissima scala e all’ostentato ripudio, da parte di molti governi occidentali, dei principi di civiltà enunciati nelle costituzioni rigide delle democrazie, nelle Carte del costituzionalismo globale, e nelle istituzioni di diritto internazionale che  che la seconda metà del Novecento ha prodotto. 

    E c’è qualcosa di misterioso (Mysterium iniquitatis?)  nell’ostentata soddisfazione con cui alcuni, e non pochi, intellettuali pubblici e accademici, trasversalmente disposti rispetto alle simpatie politiche, dall’estrema destra all’estrema sinistra passando per tutte le sfumature intermedie, giustificano coi tromboni del realismo politico (e lo scherno riservato dagli esprits forts alle anime belle) i più incredibili assalti ai fragili presidi della decenza civile. “Normalizzano”, cioè,  gli assalti  e i soprassalti della Realpolitik dei leader di governo, attualmente soprattutto quelli del cosiddetto Occidente. 

    A esemplificare la sdoganata nuova hybris dei decisori politici non c’è che l’imbarazzo della scelta. Politiche di escalation bellica illimitata nei programmi della maggior parte dei governi europei, non con la cessione di sovranità militare che sarebbe il primo passo di un programma di difesa comune, ma al contrario nella direzione di un riarmo selvaggio, in ordine sparso, a costo di usare i fondi europei comuni per finanziare le industrie belliche nazionali. Genocidi di stato, detenzioni illegali e torture tollerati alla luce del sole e perfino sostenuti con il commercio delle armi e di altri ausili,  deportazioni annunciate di interi popoli, respingimenti di massa di migranti e immigrati, razzismo ostentato ai vertici dei governi, esecuzioni extragiudiziarie che sono veri e propri assassinii, perpetrati alla luce del sole dai cacciabombardieri di stato (che ad esempio affondano imbarcazioni senza dichiarare guerra e senza l’ombra di prove d’accusa). E poi, all’interno di molti stati, a partire dagli Stati Uniti di oggi, violente riduzioni della libertà di parola, di insegnamento, di manifestazione, virulenti attacchi all’indipendenza dei sistemi giudiziari nazionali, e, verso l’esterno, dichiarazioni di disprezzo nei confronti dei vincoli e degli obblighi di diritto internazionale, ostentato piacere di proclamarne la volontaria violazione. Insomma, in politica estera e interna, una sconcertante erosione della divisione dei poteri che definiva il minimo sindacale degli stati di diritto a partire dal signor di Montesquieu.  Infine, fra gli aspetti più eclatanti di un fenomeno di lungo corso, quello dall’apparenza ancora più medievale di un’erosione della separazione fra pubblico e privato, politica ed economia: l’asservimento delle politiche pubbliche a enormi concentrazioni di ricchezza privata, la privatizzazione, addirittura, dello spazio cosmico, il recesso dai pochi vincoli esistenti alla devastazione dell’ecosistema. 

    Come ai tempi in cui fu scritto il famoso romanzo di Camus, La peste – assistiamo al contagio inquietante con cui il cinismo della Realpolitik, sdoganata ai livelli di governo in alcuni stati democratici occidentali, si diffonde nella sfera dell’informazione e del dibattito pubblico, e ai due fenomeni complementari che ho descritto sopra: quello del silenzio, della non-partecipazione, quindi dell’apparente indifferenza, e quello della normalizzazione “realistica”. Dei vari aspetti che questa normalizzazione verbale, intellettuale e (im)morale dell’abnorme può assumere, il più sconcertante è quello più in voga sia fra i politici con mani in pasta che fra i loro gazzettieri: la normalizzazione dell’abnorme è condotta in nome della Norma per eccellenza: quella dei “nostri valori”. 

    E non sai se è più inquietante il cinismo di chi si ostina a dire “nostri” dei valori che o sono universalmente accessibili o sono pura ideologia, nomi di Dio messi sulle bandiere (che, lo si dovrebbe sapere, li trasformano in parole assassine); o l’eventuale buona fede di chi davvero credesse (se creature del genere esistono) che i beni della civiltà sono detenuti in proprietà esclusiva da certi stati (in particolare quelli nati sul sangue dei genocidi coloniali, tanto per rinfrescare le memorie corte), e  vanno difesi con baionette e bombardieri, o missili e droni, a costo di suscitare ad arte le ombre gigantesche dei Nemici del bene.  

    Passato e presente: tre voci classiche

    Oltre certi limiti, cinismo attivo o passivo,  sostegno o silenzio e indifferenza, i sintomi più classici della “banalità del male”, equivalgono a complicità nei crimini: è il fenomeno che Luigi Ferrajoli chiama l’ “abbassamento dello spirito pubblico” e il “crollo del senso morale a livello di massa” (L’ostentazione della disumanità al vertice delle istituzioni e il crollo del senso morale a livello di massa, sito di Costituente Terra).

    Naturalmente, come già si desume dalla citazione del romanzo di Camus uscito nel 1947, non è la prima volta che fenomeni di degenerazione prebellica si manifestano, a livello nazionale e internazionale: di politiche interne ed estere e relative opinioni pubbliche. E anzi, dalla cognizione del dolore che fu vorrei estrarre tre brani di sapienza che faremmo meglio a non dimenticare – tratti da autori che hanno rappresentato il miglior fiore dell’illuminismo novecentesco. Che tradotto in politica è il pacifismo giuridico, la cui più brillante espressione sta nel breve libro pubblicato da Hans Kelsen nel 1944, La pace attraverso il diritto, e nella breve sequenza di “verità autoevidenti” che Kelsen enuncia nella sua prefazione. Ed ecco dunque il primo brano:

    La verità è che la guerra è un assassinio di massa, la più grande disgrazia della nostra civiltà, e che assicurare la pace mondiale è il nostro principale compito politico, un compito molto più importante della scelta fra democrazia e dittatura, o tra capitalismo e socialismo. Non esiste, infatti, la possibilità di un sostanziale progresso sociale finché non sia istituita un’organizzazione internazionale tale da impedire effettivamente la guerra fra le nazioni della terra. 

    La seconda voce viene da uno dei più acuti filosofi del Novecento, e uno dei pochissimi eredi e innovatori di ciò che la filosofia è stata nella modernità – là dove non ha ceduto alle seduzioni della sofistica e della retorica: illuminismo, ancora. È un passo tratto dall’opera pubblicata postuma, nel 1946, Il mito dello Stato di Ernst Cassirer (che, fuggito dalla Germania perché ebreo nel 1933, dopo aver insegnato a Oxford e in Svezia, si era trasferito dal ’41 negli Stati Uniti, insegnando prima a Yale e poi a Columbia University fino alla morte nel 1945):

    «Ciò che abbiamo appreso alla dura scuola della nostra vita politica moderna è il fatto che la civiltà umana non è per nulla quella cosa ormai saldamente fondata, che una volta supponevamo essa fosse. […] La nostra scienza, la nostra poesia, la nostra arte e la nostra religione non sono che una superiore mano di vernice sopra uno strato molto più antico, che arriva fino a una grande profondità. Dobbiamo essere sempre pronti a violenti sconvolgimenti, che potranno scuotere dalle fondamenta il nostro mondo culturale e il nostro ordine sociale».

    La terza voce, infine, la rubiamo alle memorie di Altiero Spinelli, a quella pagina emozionante che descrive l’incontro, a Ventotene, con Ernesto Rossi

    «Aveva, come me, assai forte il senso dell’oceano insondabile di irrazionalità, di ferocia, di stupidità, di ignoranza, di desiderio di morte da dare e da incontrare, e d’altro ancora. Era assai consapevole che il piccolo mondo luminoso della ragione creato dagli uomini emerge da questo caos, il quale si agita permanentemente intorno ad esso minacciando di inghiottirlo di nuovo. Ma, a differenza di me, si rifiutava di tentare di ascoltare il caos, di comprenderlo, di ridurlo talvolta e in parte a momento di nascita di un nuovo ciclo di razionalità. Per far ciò a poco servivano le armi del pensare chiaro, preciso».

    L’avversativa che chiude il terzo passo – “Ma, a differenza di me…” segna tutta la distanza fra un nobile, puro chierico e un “edificatore”, uno capace di scolpirle, le tavole della legge: un designer e costruttore di nuove istituzioni, quale Spinelli (scioccamente ridotto dalla vulgata corrente al principale autore, con Ernesto Rossi e Eugenio Colorni, del Manifesto di Ventotene) fu effettivamente: l’ideatore di quel poco di struttura federale che l’Unione europea riuscì a darsi con il Trattato istitutivo dell’Unione Europea (TUE), nell’atto della sua istituzione, a Maastricht nel 1992. 

    Spinelli è l’uomo cui dobbiamo la parziale realizzazione di quel design, in forza delle sue ultime grandi battaglie nel Parlamento della Comunità europea, sfociate nel 1984 nell’approvazione a larga maggioranza del Progetto Spinelli, alcuni elementi del quale furono riprese nell’Atto Unico, futuro elemento costitutivo del Trattato di Maastricht. Ed è la personificazione di un vero balzo avanti che la ragione pratica ha fatto nel Novecento: da capacità di discernimento morale e autoregolazione del comportamento personale (l’età della ragione secondo Kant, l’autonomia del cittadino adulto) a – anche – capacità di design istituzionale, che incarni normativamente la pari dignità e i pari diritti degli umani come tali nel vincolo e negli obblighi che l’istituzione pone all’arbitrio delle sovranità nazionali. La Federazione europea fu concepita come il primo passo per levare dall’altro mondo e costruire in questo la pace perpetua di Kant, la federazione mondiale delle repubbliche. 

    Queste tre voci novecentesche della ragione pratica – il filosofo, il giurista, il politico “edificatore” – ci introducono alla terza e ultima parte di questa riflessione  – che cos’è una pace disarmata?

    Una pace disarmata

      «… Una feroce /forza il mondo possiede, e fa nomarsi/Dritto».

      La desolata constatazione di Adelchi morente, al V atto dell’omonima tragedia manzoniana, vale per i millenni della storia umana. Ora, ci sono due questioni. 

      La prima è se qualcosa di sostanziale è cambiato nella storia umana, rispetto alla legge di Adelchi,  con la svolta del 1945, il “mai più”, le grandi carte normative in cui “Noi, i popoli delle Nazioni Unite” rinunciamo alla sacralità delle radici di sangue e di terra di queste nazioni e fondiamo la comunità umana internazionale su quelle radici di carta e pensiero che sono i principi del costituzionalismo globale, e naturalmente sulle istituzioni che dovrebbero garantire questi principi. 

      Vale la pena, per ogni insegnante che si troverà a voler difendere le menti dei suoi allievi dall’insegnamento della legge di Adelchi –  non in chiave di cognizione fattuale e  tragica, ma in chiave di gioioso amore del destino e delle macchine da guerra – di aver presenti, proprio sotto gli occhi per ogni occasione, le parole con cui ci impegnammo allora e la loro solennità, nel Preambolo allo Statuto dell’Onu (https://digitallibrary.un.org/record/1318124/files/Charter-Italian.pdf).

      Nel suo libro Il problema della guerra e le vie della pace, ristampato in quattro edizioni dal 1976 al 1991, Norberto Bobbio affermava che sì, qualcosa era cambiato. Che era lo stesso progresso scientifico, tecnologico e industriale, con l’immenso potenziale di distruzione che aveva permesso di accumulare, sia “pacificamente” nei confronti dell’ecosistema, sia soprattutto in termini di potenziale bellico con la bomba atomica, ad aver ormai letteralmente falsificato tutte le dottrine classiche della violenza levatrice della storia. Oggi, scriveva,  l’intelligenza ci obbliga 

      a capire che la violenza forse ha cessato definitivamente di essere l’ostetrica della storia e ne sta diventando sempre di più il becchino.

      Bobbio riteneva non ci fosse neppure più spazio per alcuna dottrina della “guerra giusta”, e si appellava al diritto positivo ormai internazionalmente vigente che rendeva illecita e illegale la guerra come opzione di politica estera.

      E in effetti se si distoglie un attimo lo sguardo dalla contraddizione costitutiva dell’ONU, che nella sua Carta dichiara l’eguale sovranità degli stati membri e poi riserva le decisioni ultime in Consiglio di sicurezza a quelli che sono più uguali degli altri, bisogna ammettere che l’impianto ideale della Carta è poderoso. Esso infatti stabilisce la prevalenza della legge sulla forza, cioè del diritto internazionale sulle sovranità nazionali, rispetto a due  obbligazioni:

      1. L’obbligazione di garantire il rispetto e l’implementazione dei diritti umani;
      2. La proibizione della guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali.

      Questi sono i due pilastri del Costituzionalismo globale, con il termine introdotto da Luigi Ferrajoli, che è in definitiva un universalismo in due direzioni: quella personalistica (Obbligazione 1: ci sono cose, come l’eguaglianza in dignità e diritti, dovute a tutte le persone come tali, a prescindere dal loro essere oi no cittadini di uno stato); e quella cosmopolitica (Obbligazione 2: a nessuno stato è permesso prolungare in una guerra la sua politica estera, a prescindere dalla sua potenza o superiorità militare e industriale). Guardata in filigrana attraverso la sua carta, l’ONU apparirebbe niente meno che un’incarnazione normativa della ragion pratica, e in definitiva il frutto migliore della filosofia e dell’illuminismo – oltre che dell’aspirazione che sale dai millenni del dolore umano, almeno fin dal periodo che i filosofi chiamano  “assiale”, quando fra l’800 e il 200 avanti Cristo da Oriente a Occidente Confucio, Budda, i profeti biblici, i primi pensatori greci disegnano un ideale umano che la storia stessa non ha mai raggiunto. 

      Purtroppo, la situazione del mondo presente sembra smentire di nuovo il sogno della ragione da Isaia e Socrate fino a Kelsen. D’altra parte il terreno della prima questione che ho posto sopra è molto scivoloso. Se si parla della storia, si parla di fatti. Per spiegare questi fatti si può ricorrere alle scienze sociali e anche a quelle naturali, che consentono di rinnovare l’antica discussione sul fondo della natura umana, se cioè l’antico, tragico nesso individuato da tutte le tradizioni fra libertà e colpa, e anche fra cooperazione pro-sociale all’interno delle coalizioni e violenza verso l’esterno. E infatti la discussione sembra ripresa in questo senso: per restare soltanto a recenti autori italiani, si possono citare due libri utili agli insegnanti che vorranno resistere  all’involuzione autoritario-militaristica: per capire le ragioni del pessimismo antropologico e del realismo (la guerra è e resta consustanziale alle civiltà umane) si può leggere  Guerra e natura umana di Gianluca Sadun Bordoni, per le ragioni contrarie di un ottimismo della volontà che ribalta la prospettiva realpolitica in quella del primato della cooperazione e della pace che stanno a fondamento delle società umane è disponibile la Critica della ragione bellica di Tommaso Greco.

      Il terreno, dicevo, della prima questione è scivoloso, e il miglior modo per rendersene conto è formulare la seconda questione. Se anche il pessimismo antropologico avesse ragione fino all’ultima virgola: che rilevanza avrebbe questo immenso fatto per il (proporzionalmente  più arduo) compito che definisce la nostra ragione– e in particolare la nostra ragione pratica?  Come può una questione di fatto essere rilevante per una questione di valore, come si può confutare il dovere con l’essere?

      In altre parole, non vorrà il realista, il fatalista,  con tutta la sua sapienza storica e politologica, costruire la premessa della conclusione che è “normale” per l’umanità continuare così e via, è giusto che lo faccia, visto che non ci sono alternative e che di buone intenzioni sono lastricate le vie dell’inferno? Questo sarebbe un errore intellettuale prima che morale: una cecità all’abisso che separa le cose come stanno di fatto da quelle che dovrebbero essere. 

      Le verità pratiche, inevitabilmente, sono per chi le riconosce impegni pratici. E’ forse falso il pacifismo giuridico, solo perché non si è realizzato? Cosa vuol dire affermare che è illusorio, se non togliere consenso (politico) a chi lavora per costruire  i vincoli che lo rendono efficace? O, come minimo, non sentirsene impegnati. Non c’è innocenza o neutralità in questioni di guerra e di pace. C’è giurisdizione della ragione, che vuol dire prendere posizione sulla base delle verità che si conoscono, come quelle elencate da Kelsen (e prendere posizione non ha niente a che vedere con prendere partito, come la cognizione e la giurisdizione non hanno a che vedere con l’appartenenza e la sua politica).

      Ma se le cose stanno così, ciò che soprattutto urge è un risveglio della ragione, capace di rimettere in moto la nostra capacità di design istituzionale, e di “progettare il futuro”. Proprio questo è il titolo dell’ultimo libro di Luigi Ferrajoli, che riassume e ulteriormente spiega  il suo precedente Per una costituzione della Terra – Umanità al bivio. 

      La conclusione che segue a questa critica della pseudo-confutazione dell’ideale in forza del reale è la necessità di individuare gli strumenti che permetterebbero all’ideale di divenire efficace, ed è questa la ricerca aperta dal movimento che si riconosce oggi nel costituzionalismo globale e nelle proposte di Luigi Ferrajoli, che sta acquistando consenso internazionale, come si può vedere esplorando il sito dell’Associazione https://www.costituenteterra.it/.

      Forse è proprio nei momenti più bui che l’umanità ha saputo rafforzare i vincoli all’esercizio arbitrario della forza di chi ce l’ha. Il Progetto Ferrajoli si muove lungo due direzioni: da un lato, a un’estensione del costituzionalismo dal livello nazionale a quello sovranazionale, che era già, come abbiamo visto, implicita nella costituzione dell’ONU, ma con una distinzione più netta di funzioni e organizzazioni di governo e funzioni e organizzazioni di garanzia. Sono queste ultime che debbono essere sviluppate perché i principi e i diritti vengano assicurati. Il diritto alla salute è vuoto se l’Organizzazione Mondiale della Sanità non diventa l’equivalente di un sistema sanitario pubblico che lo garantisce, e lo stesso vale per il diritto all’istruzione e per il welfare. In altre parole, debbono costituirsi poteri pubblici che siano all’altezza dei poteri selvaggi dell’economia, sui quali i singoli stati nazionali hanno perduto il controllo. Ma oltre alle garanzie primarie, vanno rafforzate quelle secondarie: è qui che i vincoli riguardano l’azione politica nazionale, ponendo precisi perimetri di legalità – come effettivamente già fanno la Corte internazionale di giustizia e la Corte penale internazionale. Alle quali dobbiamo oggi, se non efficacia, un risultato alla lunga forse più prezioso: sono state custodi e testimoni di verità che hanno squarciato il velo di interessata ignoranza sulla natura effettiva del sionismo politico e sulla storia effettiva della distruzione della Palestina storica e della pulizia etnica come infine dal genocidio subito dal popolo palestinese nel lungo corso della costruzione dello stato ebraico di Israele. Quando chiedi giustizia, chiedi che tutti conoscano la verità, dice chi ha esperienza di ingiustizia subita. 

      In una seconda direzione, dev’essere ampliata la sfera degli oggetti da garantire: non solo i diritti fondamentali degli individui, ma anche i beni fondamentali alla sopravvivenza dell’umanità – come i beni che le catastrofi ecologiche e climatiche in corso stanno distruggendo. L’invenzione di un demanio della terra con poteri di regolazione nell’uso selvaggio delle risorse ambientali rientra in questa prospettiva. Ma accanto ai beni da proteggere, ci sono anche quelli da proibire. Ed è qui che torniamo a bomba – letteralmente. E arriviamo all’ultimo orizzonte della discussione sulla militarizzazione in atto delle società, come al cuore stesso di questo progetto di pacifismo disarmista. Se vuoi la pace, elimina le armi. 

      E allora studiamoli, questi articoli della bozza Ferrajoli su beni micidiali come beni illeciti. Li regge la più ovvia e accertata delle verità empiriche: dovunque ci sono armi, prima o poi si usano. Dovunque, a livello privato, se ne limita l’accessibilità, il tasso degli omicidi decresce. Eccoli. 

      Art. 52. Divieto di produzione, di commercio e di detenzione di beni micidiali

      I beni illeciti sono i beni micidiali, dei quali sono vietati la produzione, il commercio e la detenzione.

      Sono beni illeciti le armi nucleari, le altre armi di offesa e di morte, i droni omicidi, le scorie radioattive….

      Art. 53. La messa al bando delle armi e il monopolio pubblico della forza

      Sono vietati e puniti la produzione, la sperimentazione, il commercio, la detenzione e la diffusione di armi nucleari, dii armi chimiche, di armi batteriologiche o di altri tipi di armi a questi simili per natura e per effetti.

      Sono vietati e puniti la produzione e il commercio di armi da fuoco. La produzione e la detenzione di tali armi sono riservati al monopolio pubblico in capo alle forze di polizia locali, statali e globali

      Dovremo fare in modo che questi articoli appaiano alle prossime generazioni davvero articoli necessari a  una costituzione della terra su cui viviamo, e non pensieri angelici su una costituzione del cielo – che non ne ha bisogno. 

      Nata a Pavia il 2 aprile 1952, è una filosofa italiana. Ha studiato alla Normale di Pisa, dove si è laureata nel 1976 con una tesi su Edmund Husserl.

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