Il vizio dei Governi di utilizzare le riforme costituzionali per realizzare il proprio indirizzo politico
Prescindendo dalle sgangherate disposizioni che costituiscono il “cuore” della riforma governativa in tema di ordinamento giudiziario – sintetizzate dallo slogan “separazione delle carriere dei magistrati penali”, che sono, occorre ribadirlo ancora una volta con chiarezza, già del tutto separate per quanto attiene alle funzioni svolte rispettivamente dai magistrati giudicanti e dai magistrati requirenti, sia pure sotto l’“autogoverno” unitario delle loro carriere di cui si occupa il CSM, organo di rilievo costituzionale nel quale, oltretutto, la componente togata di origine elettiva è rappresentata da 5 magistrati del pubblico ministero su 20 complessivi – può essere utile riflettere su una preliminare questione che attiene proprio al modo di intendere – ahimè – nel nostro Paese il procedimento di revisione costituzionale. Anzi, in questo caso, sono state esaltate alcune patologie già note, che si stanno cronicizzando e che fanno regredire il significato stesso dei principi costituzionali verso il livello delle norme ordinarie.
Come è noto, le regole ordinarie sono espressione della legge, strumento a disposizione della maggioranza politica che sostiene il Governo per imporre legittimamente il proprio indirizzo, cui si conforma l’ordinamento. Con riguardo al procedimento di formazione della legge ordinaria – della cui perdurante crisi molto si potrebbe ugualmente dire, essendosi esso ridotto alla conversione dei decreti-legge adottati dal Governo, senza alcuna effettiva cautela per quanto attiene ai requisiti costituzionali richiesti – il ruolo di propulsore spetta in effetti al Governo, che molto spesso “blinda” il testo oggetto della deliberazione parlamentare attraverso la questione di fiducia. Si tratta di uno strumento “tradizionale”, non escluso dalla Costituzione vigente e disciplinato dai regolamenti parlamentari, copiosamente utilizzato dall’Esecutivo per rendere chiaro alla propria maggioranza il suo intendimento di rimanere in carica condizionando tale permanenza alla richiesta approvazione di determinate norme.
Anche riguardo alla riforma costituzionale di cui sopra – come pure in altre circostanze del recente passato, mai sufficientemente stigmatizzate – è stato direttamente il Governo a farsi carico di promuovere, attraverso un proprio disegno di legge, la “separazione” della carriera dei magistrati requirenti da quella di tutti gli altri magistrati giudicanti, anche fuori dal campo penale. E, anzi, il Ministro competente ratione materiae non ha perso l’occasione per rivendicare orgogliosamente tale scelta. Come in una procedura parlamentare nella quale entra in gioco la sorte del Governo che pone la questione di fiducia (sia pure con cadenze temporalmente più distese, essendo inevitabile la doppia deliberazione delle Camere a intervalli prestabiliti), la stessa Presidente del Consiglio ha finito per sollecitare e ottenere nei fatti – essendo precluso ricorrere allo strumento della fiducia sui progetti di legge costituzionale – la blindatura di quella proposta, impedendo qualsiasi fruttuosa, direi inevitabile, dialettica parlamentare non solo con i gruppi di opposizione, ma anche con le componenti della sua stessa maggioranza che, dal canto loro, avrebbero potuto legittimamente chiedere di rivedere alcune scelte o suggerirne altre. Tutto ciò, evidentemente, sarebbe potuto avvenire se la maggioranza parlamentare godesse di una vita propria, distinta da quella del Governo che pure sostiene.
Quel che si constata, alla fine di questo percorso parlamentare, sicuramente poco rispettoso della dovuta correttezza istituzionale e che non si è potuto concludere nella sede parlamentare in assenza dei due terzi dei voti favorevoli di Camera e Senato, è la rivendicazione governativa – con toni che talvolta sono sembrati volutamente sguaiati – di aver raggiunto un obiettivo storicamente inseguito dal centro-destra nostrano allorché a guidarlo era Silvio Berlusconi, assurto a vittima dell’uso politico del processo penale nel nostro Paese, segnatamente da parte di alcune Procure che lo avrebbero strumentalmente indagato, senza peraltro riuscire, come noto, a impedirgli di diventare per quattro volte Presidente del Consiglio.
È forse superfluo ritornare alle turbolente vicende che hanno contraddistinto il sistema politico italiano tra il 1994 e il novembre 2011 e che hanno portato, tra l’altro, al crollo del centro-destra a trazione berlusconiana (e alla stessa decadenza dalla carica di senatore di Berlusconi, all’inizio della XVII Legislatura, dopo la sua condanna definitiva per frode fiscale) e, dopo la stagione interlocutoria segnata dall’ascesa e poi dal declino del renzismo e dal ciclo politico del Movimento 5 Stelle, alla schiacciante vittoria alle elezioni generali del 25 settembre 2022 del centro-destra guidato da Giorgia Meloni. Proprio quella vittoria, come si è osservato, si ricollega anche al passato politico del centro-destra, dal quale sembra trarre legittimazione per l’attuale riforma.
Questo forse chiarisce perché sulla riforma costituzionale sia stata avanzata la richiesta del referendum non solo dalle opposizioni – come era inevitabile, anche solo per la loro sostanziale emarginazione dal confronto parlamentare – ma anche dagli stessi gruppi parlamentari favorevoli alla riforma, interessati a ottenere una conferma popolare della loro scelta. Il referendum assume dunque, ancora una volta, una duplice valenza: oppositiva per alcuni, approvativa-confermativa per il Governo. Tale carattere duale accentua la politicizzazione della consultazione, provocata con piena consapevolezza dall’organo governativo e dalla sua maggioranza parlamentare.
Si conferma così, almeno a mio avviso, un uso distorto del referendum costituzionale, previsto in origine come un appello al corpo elettorale finalizzato a impedire l’entrata in vigore di una riforma costituzionale promossa dalla sola maggioranza parlamentare e contestata da una significativa minoranza delle Camere (un quinto di ciascuna) oppure da cinquecentomila elettori o da cinque Consigli regionali. Tutti soggetti che, in astratto, finiscono per voler esprimere un dissenso verso il mutamento delle norme fondamentali dell’ordinamento ricorrendo alla consultazione popolare. Viceversa è noto come già il Governo Renzi, tramite i gruppi parlamentari di sostegno, si fosse “speso” per sostenere la complessiva riforma della seconda parte della Costituzione – presentata genericamente come superamento del bicameralismo perfetto – e come il popolo respinse tale riforma con il referendum del 4 dicembre 2016; così come analogo atteggiamento era già stato tenuto dalla maggioranza di centrosinistra guidata da Romano Prodi, che aveva appena vinto le elezioni nel maggio del 1996, con riguardo alla riforma del Titolo V in tema di rafforzamento delle autonomie territoriali, poi realizzatasi nell’ottobre del 2001 grazie all’approvazione referendaria.
Al di là di qualche incauto calcolo politico, il tema è l’abuso di un uso maggioritario del voto referendario sulle modifiche costituzionali. Tale uso viene oggi presentato senza imbarazzo come espressione dell’intendimento di una parte politica che vuole andare fino in fondo nella contrapposizione con le altre componenti parlamentari, escluse dalla ridefinizione di alcune regole portanti dell’assetto istituzionale. L’eventuale correzione di rotta imposta dal corpo elettorale viene, in questo impoverito contesto, stigmatizzata come una battuta d’arresto che non inficia la “giustezza” della riforma, mentre si attribuisce agli elettori una sorta di conservatorismo che li porterebbe a restare indietro. Almeno così sostiene ancora oggi Matteo Renzi, interpretando l’esito del referendum del 2016, sebbene gli vada dato di essersi dimesso dalla carica di Presidente del Consiglio, pur restando alla guida del suo partito, poi sconfitto nelle elezioni politiche del 2018.
Vedremo a tal proposito cosa potrà eventualmente accadere. Tuttavia, proprio alla luce di quanto accaduto, la Presidente Meloni non pare intenzionata a intestarsi una primogenitura sulla riforma costituzionale relativa all’ordinamento giudiziario: la sostiene, ma lascia ai Ministri competenti – in particolare al Guardasigilli, confortato dagli esponenti di punta della maggioranza, inclusi i cosiddetti “tecnici di area” – il proscenio referendario, confidando comunque nel persistente consenso personale che sembra godere presso gli elettori.
L’autogoverno della magistratura ordinaria quale presidio della sua indipendenza e l’anomala delega “in bianco” al legislatore per realizzare la riforma costituzionale
Ciò che appare davvero stupefacente nella modifica costituzionale, a prescindere dal discutibile merito che produce il definitivo abbandono dell’unicità della carriera per i magistrati penali chiamati a svolgere funzioni requirenti – già ampiamente distinta da quella dei magistrati giudicanti tramite norme ordinamentali meno rigide – è che non si comprende come saranno individuati tali magistrati rispetto agli altri, né quali conseguenze deriveranno dal funzionamento dei due CSM che andranno a sostituire l’attuale CSM, organo unico di autogoverno della magistratura ordinaria. L’autogoverno è condizione essenziale per garantire l’indipendenza dei magistrati dagli organi di potere politico, i quali dispongono già di altri strumenti per influenzare l’ordinamento, a cominciare dalla funzione legislativa.
Una volta approvate le norme, tuttavia, la loro applicazione secondo sperimentati, e nel contempo diversificati, criteri interpretativi non è più affare del legislatore né del Governo. Si tratta di uno schema consolidato negli ordinamenti democratici, cui appartiene anche quello italiano grazie alla Costituzione repubblicana. Non è il caso di diffondersi ulteriormente su questo punto, salvo ricordare che nel contrasto tra una norma legislativa e un precetto costituzionale, nessun magistrato giudicante è tenuto ad applicare la prima, potendo sospendere il giudizio e sollevare questione di costituzionalità. Il pubblico ministero, essendo parte processuale, può solo sollecitare il giudice a sollevare la questione. Il richiamo dell’art. 101 Cost. – “i giudici sono soggetti soltanto alla legge” – non esime dal distinguere tra legge costituzionale e legge ordinaria, secondo il principio della gerarchia delle fonti. Come si vede, un equilibrio costruito affinché prevalga la legalità costituzionale.
Le rinnovate disposizioni costituzionali sembrano, in realtà, solo una traccia, rimettendo al legislatore ordinario la soluzione di una serie di questioni che non rappresentano il mero sviluppo dei nuovi precetti costituzionali, ma il loro contenuto sostanziale. Si potrebbe parlare di una regressione della norma costituzionale a delega legislativa generica. Con riguardo alla rigida separazione delle carriere, è probabile che l’accesso alla magistratura requirente venga del tutto distinto da quello alla magistratura giudicante. Ma quali saranno i requisiti? Sarà conservato – ipotesi improbabile, essendosi istituiti due CSM distinti – un concorso unico con libertà di scelta tra le due carriere? E cosa accadrà ai magistrati requirenti attualmente in servizio che volessero cambiare funzioni quando entreranno in vigore le nuove carriere? Conserveranno libertà di scelta? E fino a quando? E se il numero dei requirenti si riducesse ulteriormente, si potrebbe pensare a forme di coazione nei confronti dei magistrati giudicanti o addirittura a modalità di reclutamento fuori dall’ordine giudiziario?
Tali questioni possono sembrare marginali, ma è indiscutibile che il legislatore ordinario avrà davanti un lavoro pieno di incognite e di sconcertante discrezionalità, destinata a svalutare il “peso” della normativa costituzionale che da elastica diventa eterea. Un lavoro per il quale si prevede, all’art. 8 (Disposizioni transitorie della riforma costituzionale), un anno dalla sua entrata in vigore – termine sicuramente ordinatorio – e che sino a quando non sarà del tutto ultimato, lascerà le cose come stanno in questo momento. Si potrebbe persino apprezzare, a tal proposito, una certa cautela nel programmare la piena operatività della riforma che si vuole introdurre!
Quanto poi alla nomina per sorteggio dei membri togati dei CSM, al di là delle lucidissime e perspicue obiezioni già espresse da un maestro del diritto costituzionale come Sergio Bartole, non si può non vedere come il legislatore sarà libero di individuare i criteri per l’inserimento nelle liste degli estraibili. Ciò riguarderà anche i membri togati dell’Alta Corte disciplinare, per i quali l’unico requisito richiesto è un’anzianità di servizio di vent’anni e l’aver svolto funzioni di legittimità.
Mi pare evidente che si faccia fatica a considerare la rinnovata magistratura ordinaria come espressione univoca della funzione giurisdizionale: non solo perché la magistratura penale viene divisa in due tronconi, ma perché l’individuazione della componente togata viene sottratta alla libera scelta dei magistrati e affidata al caso, sganciandola da qualsiasi effettiva selezione. Scompare, quindi, l’elettorato attivo dei magistrati giudicanti e requirenti. Se tale scelta mira ad attenuare il “peso” delle correnti, il cui ruolo nel CSM è stato spesso negativo – con logiche spartitorie talvolta indegne e talvolta in combutta con componenti laiche di derivazione politica – è tutt’altro certo che l’obiettivo sarà raggiunto. Si può escludere che, a prescindere dall’estrazione e comunque in ogni caso a prescindere da quella, non vi saranno più logiche di proselitismo correntizio virtuose o meno che siano? E comunque il prezzo istituzionale rischia di essere, in linea di principio, la negazione dell’autogoverno della magistratura, posto che le appartenenze dei magistrati ad una corrente associativa interna non possono essere limitate, al contrario della loro iscrizione ad un partito politico che può essere prevista per legge (art. 98, terzo comma, Cost.).
Al massimo si avrà il governo della magistratura da parte di magistrati sorteggiati, esposti alla forza ben più strutturata della componente laica. Questa resterà sì sorteggiata, ma attingendo a un elenco formato dal Parlamento, che eleggerà i professori ordinari di materie giuridiche e gli avvocati con almeno quindici anni di esercizio. Anche su questo punto il legislatore potrà sbizzarrirsi: numero degli eleggibili, maggioranze richieste, criteri di formazione degli elenchi, restano tutte questioni da definire. Già oggi, dopo la riduzione del numero dei parlamentari, gli attuali meccanismi provocano squilibri a vantaggio delle forze maggiori; tali squilibri potrebbero accentuarsi se si rafforzasse, come pure questa maggioranza governativa sembra intenzionata a fare, la logica della “governabilità” a danno della rappresentatività degli elettori. Il che accadrebbe inesorabilmente con la “madre di tutte le riforme”, vale a dire l’introduzione del c.d. premierato cui farebbe da naturale corollario anche il mutamento dei meccanismi elettorali facilitatori della individuazione di una maggioranza parlamentare indissolubilmente collegata al Premier eletto tendenzialmente per tutta la durata della Legislatura.
E anche riguardo all’Alta Corte disciplinare tutto ciò che attiene al suo funzionamento resta nelle mani del legislatore. Non è solo la scelta di sottrarre ai CSM la funzione disciplinare – ricomponendo per questa funzione la magistratura requirente e quella giudicante, con un ulteriore colpo inferto all’autogoverno – né solo l’aver istituito un giudice speciale in spregio all’art. 102, c. 2, Cost.: è che l’intera disciplina della nuova giurisdizione resta indefinita. A parte il numero dei componenti (15, di cui 6 giudicanti e 3 requirenti, più 3 di nomina presidenziale e 3 sorteggiati tra i membri eletti dal Parlamento), non è chiaro come saranno composti i collegi di primo e secondo grado. E non se ne comprende la logica, se non in chiave di intimidazione rispetto al loro operato, il che riduce la possibilità dei magistrati – tutti – di svolgere la propria funzione con piena serenità, prerequisito rispetto all’indipendenza.
La vera posta in gioco del referendum costituzionale, ben oltre l’assetto della magistratura penale
Il regresso della tenuta democratica di un ordinamento può essere testimoniato dall’allentamento della funzione di garanzia svolta dalla magistratura. Essa è chiamata a circoscrivere l’esorbitanza dalle regole vigenti da parte di chiunque intenda violarle, fatta eccezione per specifiche immunità circoscritte da esplicite disposizioni costituzionali, tanto più nei confronti di chi esercita funzioni di rappresentanza politica ai massimi vertici contemplati nell’ordinamento. Credo, allora, che il referendum tocchi questioni di fondo che meritano di essere richiamate nella loro brutale attualità: siamo ben oltre la separazione delle carriere.
Se aggiungiamo che il complessivo disegno riformatore riguarda, come già ricordato, anche il superamento dell’attuale forma di governo parlamentare – come la Presidente Meloni dichiarò chiaramente nel discorso alla Camera del 25 ottobre 2022, dopo la sua ascesa al Governo – allora il tema di ciò che potrà accadere alla democrazia italiana suggerisce un supplemento di attenzione da parte di ciascuno di noi. Non sarà forse sufficiente, ma certamente non è proprio il caso di minimizzare la portata referendaria sulla quale saremo chiamati a pronunciarci, riservando angoscia e preoccupazione semmai per ben altri gravi problemi con i quali pure conviviamo nostro malgrado (la civiltà occidentale allo sbando, la minaccia nucleare conseguente ai conflitti bellici che toccano anche la parte orientale del nostro Continente, il sogno europeo che tanti vedono tramontato e così via). La vera insidia è che, al traino di sconcertanti episodi che pure ci sono stati (la vicenda Palamara su tutte), si possa pensare sbrigativamente, senza troppo riflettere sulle questioni di fondo toccate dalla revisione costituzionale, che la magistratura italiana “si sia meritata una strigliata”. Anche ammesso che fosse vero – tesi alimentata da campagne mediatiche vergognose e sensazionalistiche, che si nutrono di operatori del diritto non sempre qualificati, direi persino improbabili in tali vesti – non è questo il punto da mettere a fuoco.
C’è da difendere la nostra idea di Costituzione e il suo sapiente, insuperabile equilibrio tra poteri di differente origine, nonché il limite invalicabile imposto agli organi politici chiamati, in virtù del consenso popolare, a governare: niente di meno, niente di più. Egualmente c’è bisogno di magistrati sapienti che abbraccino la toga nella piena consapevolezza di esercitare una funzione vitale per l’ordinamento democratico, senza indulgere né al condizionamento e all’ammiccamento, sempre dietro l’angolo, dei camaleontici c.d. poteri forti, né alla loro stessa vanità. Anche per queste ragioni occorre auspicare che il loro autogoverno sia capace di funzionare efficacemente e, comunque, meglio possibile.
[L’articolo di Antonio D’Andrea riprende e sviluppa alcuni dei punti del suo intervento al primo dei due incontri organizzati dall’Università degli Studi di Brescia e da Osservatorio Autoritarismo: il convegno, dal titolo “La riforma costituzionale della magistratura: incognite e corollari”, si è tenuto il 18 novembre 2025. Tema del secondo incontro, del 26 novembre, è “Premierato e legge elettorale. Le congetture riformatrici sull’ordinamento costituzionale italiano].

